Uccellaccio del malaugurio

Nel Settembre 2011 sono stato invitato da una Parrocchia vicina ad animare la ricorrenza della Madonna Addolorata. L’appuntamento mi ha dato modo di chiarirmi ulteriormente alcune convinzioni circa il mistero del dolore. Normalmente o si glissa la realtà del male o se ne parla con una morbosità fuori posto. Poco, o addirittura pochissimo, se ne parla proponendone una integrazione, e così resta materiale che ci fa soffrire, che ci esaspera, contro il quale (giustamente) lottiamo rinunciando tuttavia a trasformarlo, a strizzare il succo di grazia che contiene. Espongo innanzitutto un paio di premesse sui miei gusti spirituali e circa i gusti di Dio. Il sottoscritto non ama il dolorismo, il piacere malato di parlare di disavventure e cose tristi, meglio se fatto sottovoce. Per esempio, la spiritualità funerea e plumbea di certuni che vanno  a far visita agli ammalati con l’aria melanconica ed irritante dell’uccellaccio del malaugurio. Da una lettura attenta e critica delle pagine bibliche non emerge mai, nemmeno nelle pagine più violente, l’immagine di un Dio dai gusti sadici, nemmeno quando si fa riferimento alla sua ira. Un Dio che dispensa sofferenze e dolori, che infierisce con crudeltà divertendosi sulle sue creature. Tutt’altro! Veniamo ora, fissando lo sguardo sulla Madre del Signore, alla relazione tra il dolore di Maria e il suo cammino di fede. E’ una relazione educativa per noi e che esprime dei punti fermi estremamente interessanti. Ne colgo almeno tre. Il dolore in Maria non umilia ed uccide la sua maternità, ma la allarga, la rende feconda. Il ‘figlio’ che sta sotto la croce rappresenta l’uomo di sempre, tutti gli uomini, tutta la Chiesa. Di fronte  a tale ‘figlio’ a Maria viene rivelato: ‘Donna ecco tuo figlio!’. E’ come una seconda vocazione, una chiamata ad essere la madre dei figli. Quindi, il male, la sofferenza può abbruttirci, gettarci nella disperazione o… renderci fecondi. Esso nasconde una misteriosa e sorprendente chiamata. Inoltre il dolore rende Maria la donna obbediente. In un passaggio della Lettera agli Ebrei si descrive il Figlio morente come sacerdote che dona la vita con queste parole: ‘Pur essendo Figlio imparò l’obbedienza da ciò che patì’. Verità biblica questa estensibile alla Madre.  Dio non la costringe, non la piega quasi stritolandola con il dolore. La lascia libera. Solo nel dolore in ogni caso l’obbedienza diviene radicale, vera, totale, perché non ci sono scappatoie, vie alternative, sospensioni. Si può solo rinnegare o… accogliere. Ecco allora la conferma di coloro che sostengono che una fede non provata rimane bambina, non cresce, non matura.  Ed infine il dolore la trasforma in donna compassionevole. AvvoltonioChi non ha patito che ne sa della compassione, della consolazione e della speranza? Ricordo una decina d’anni fa un gruppo di preti incontrati in un monastero dalle parti di Fabriano confidarmi le lamentele circa il loro Vescovo esigente ed intransigente, ovvero privo di misericordia. Alcuni di loro lo avevano ripreso con parole franche: ‘Lei Eccellenza non sa che cosa vuol dire star male, e quindi non può capire quelli che stanno male e non sa nemmeno come far star bene quelli che ora stanno male!’. Maria donna e madre passata sopra i carboni della prova interceda per noi e ci doni la consolazione della speranza.

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Molleggiato o smolleggiato?

Tanto bravo e straordinario come cantante, quanto pessimo e penoso come predicatore televisivo il nostro Celentano, avendo poi siglato almeno due clamorosi autogol in due consecutive serate sanremesi. Curiosa e confusa la sua spiritualità, checché ne dica l’amico prete. Si contesta la ‘politica’ di Famiglia Cristiana, quasi esclusivamente terrena a suo dire, e si spara sulla ‘politica di Dio’, che poi dovrebbe interessarsi anche dell’uomo e del terreno. Le considerazioni dell’improbabile guru mi solleticano a condividere una serie di valutazioni sulla/e spiritualità in circolazione nei crocevia delle nostre Parrocchie. Gettonatissima e in progressiva ascesa, quasi la number one delle top ten, la spiritualità delle bollicine o se si preferisce all’idromassaggio. Emotiva e superficiale, devozionistica e priva di riflessione. Chi la pratica se ne sente appagato e fiero. E’ di facile fruizione e gode di immediato consenso. Ricordo come uno dei suoi rappresentanti, durante una conversazione telefonica a Radio Maria, tutto tranne che Radio trasgressiva, veniva redarguito dall’anziano sacerdote conduttore. Lo speaker, credo fosse uno stagionato biblista, si infastidiva che la preghiera venisse trattata alla stregua di una potente aspirina o di un anestetico dell’anima. Un tempo in Seminario la si definiva con un termine onomatopeico la ‘Spiritualità del Ciu Ciu’. Frivola, femminea, senza spina dorsale. L’unica ambizione dei suoi addetti è: ‘Che bene che si sta!’.  Accanto a questa ne sta risorgendo una trionfalistica, della serie ‘Dio è strapotente! Basta affidarsi e… se non si risolve il problema è perché si è pregato male o non ci si è fidati a sufficienza della sua fantomatica forza!’. Agli adepti di tale corrente basterebbe rispolverare l’acuto S. Paolo, amante del vero volto di Dio, non di quello deformato e sagomato in accordo con le nostre fantasie eccessivamente terrene, in quale confessava: ‘Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso’. (1Cor 2,2) Affiliati a, o filiati da, questa corrente religiosa ci sono i patiti della pastorale del risultato, rampante e concentrata ad incassare il successo numerico. Talvolta si innescano qui un concentrato esplosivo di rivalità con comunità vicine, entusiasmi e strani nervosismi parenti vicini dell’aggressività  e della depressione. Oppure esistono le spiritualità a senso unico. Troppo colte e misticheggianti, incantate da ciò che vedono come Pietro sul Tabor, o in altri casi sbracate e semplicione, tese a concentrasi unicamente, rischiando di annullarsi, sulla ‘pastorale della polenta e costa’. Risultano così burlone e superficiali avendo per motto ‘Basta volerse ben e star col Papa’. Secondo me Celentano aveva intuito qualcosa di vero, andando a finire però completamente fuori strada. La spiritualità, la vita animata dallo Spirito, il credente verace, la Chiesa che profuma di Vangelo si occupa e deve occuparsi di paradiso e di inferno, di cielo e di terra, di grazia e di peccato, di luce e di tenebre, di eternità e di storia in un dialogo polare, in un abbraccio, in uno scambio incessante dove la saggezza sta nel tener insieme i due estremi senza diventare estremisti, ma costruttivi e convincenti.

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Conversione al timone

È veramente curiosa e saggia la parabola profetica del libretto di Giona. Si incontrano almeno due conversioni: quella della mitica città di Ninive, concentrazione di vizio e di violenza, e quella di Dio che si ‘ravvede’ del male minacciato. Manca all’appello quella di Giona. Il libro infatti termina tronco, siamo in attesa della sua risposta perché… spetta a noi. Su tale decisivo passaggio ci sono alcune note da non dimenticare. Vale ovviamente anche per lo scrivente. Ne richiamo alcune che presento in termini sintetici e un tantino scanzonati. Occhio allora alle conversioni rapide e radicali. È bene nutrire per tali repentini cambi di guardia una smaliziata diffidenza. concordia17L’autorevole San Tommaso insegnava che le leggi dell’animo umano, scritte dal Creatore, non si possono manipolare in quattro  e quattr’otto. Quando dura quindi una conversione? Inoltre non è da ingenui stare in guardia quando vediamo le tracce del moralismo o fiutiamo l’odore del volontarismo. La conversione è grazia, attrazione e desiderio. Le anime frigide e rigide da questo punto di vista sono quasi inconvertibili. Ed infine l’uomo in stato di conversione tende al bene, alla verità, a ciò che è giusto e buono. Da alcune settimane si è consumata in Italia la tragedia della nave da crociera ‘Concordia’. E’ stato uno spettacolo agghiacciante di immagini  e di contraddizioni. La nave si è rovesciata perché si è cercato altro rispetto a ciò che era bene fare e alla responsabilità. Quindi la conversione non è nemmeno una lontana parente della tristezza e della mortificazione, perché essa aspira alla gioia e alla festa per sé e per gli altri.

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Servo inutile

E così il grande uomo stacanovista e nottambulo lo troviamo inchiodato a letto dolorante e infastidito, talvolta rabbioso. Uno spettacolo non proprio esaltante e una testimonianza povera. Dura prova per uno come me che ha il vizietto cronico di tener tutto sotto controllo e di non dover ‘dipendere’ dagli altri, preoccupato di dare un’immagine fresca ed aitante di sè. Avevo programmato anche i tempi del mio recupero, ma quelli li sta dettando il mio corpo e il volere della provvidenza che non coincide con il mio. Eppure avverto che dentro alla mia infermità si sta compiendo un mistero grande, di cui intuisco la forza e la fecondità. Uno degli elementi fondamentali della mia spiritualità, se non il centrale, è il Magnificat di Paolo, o la sua confessione di fede che si trova nella sua lettera più autobiografica (la seconda ai Corinti): ‘Quando sono debole è allora che sono forte’. Paolo irruento e narcisista doc si era lamentato ad oltranza per un limite di cui soffriva, una sorta di ‘spina nella carne’ come lui la chiama. Si era sentito rispondere da un Dio che non lo accontentava con la guarigione/liberazione: ‘Paolo ti basta la mia grazia, la mia forza si rivela pienamente nella tua debolezza’. Paolo impara allora a trasformare i suoi guai in benedizione. Sono qui anch’io a provare a balbettare una preghiera di gratitudine perchè nel patire si impara a com-patire, si recupera un pò di santa umiltà, ci si ridimensiona, si gusta cosa significa lasciarsi andare senza veder nulla sapendo che i Suoi occhi ci vedono e che la Sua presa non verrà meno, si gode la libertà evangelica di farsi da parte perchè gli altri e l’Altro avanzino e crescano, senza fare l’imbronciato e il risentito. Strana e preziosa scuola quella della sofferenza. Perdonatemi, qualcuno quando parlo così non mi segue, non mi capisce o viene addirittura disturbato e allora taglia, preferisce ascoltare altro o farmi parlare d’altro. Ma qui sta la mia fede e la mia terapia profonda, e… la mia gioia. Quindi non posso tacere, sento il bisogno di condividere questo dono per il quale non avverto meriti, ma solo grazia. Da ultimo sono riconoscente al Signore perchè mi ha dato di fare esperienza per l’ennesima volta delle consolazioni riservate ai celibi per il Regno dei cieli: ‘Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi…’. (Cfr. Mc 10). Ho avvertito la comunità solerte, affettuosa, vicina, solidale con il suo pastore. Ringrazio preti e laici, amici, collaboratori (ora si preferisce la parola ‘laici corresponsabili’, ma ricordo che collaboratori è parola più biblica e figlia della parola greca, moderna e antica, ‘sinergia’), medici, conoscenti, ragazzi, giovani e anziani… per avermi accompagnato e sostenuto. Un Natale insolito per me quello del 2011, da ‘servo inutile’, che ha fatto un passetto in più nell’intendere l’energia e la saggezza nascoste nella debolezza. Non c’è nulla di triste e di tetro allora nel bellissimo affresco che ho ammirato a Greccio, luogo che ha visto il primo presepe della storia. Il bambino nelle braccia di Maria è fasciato con le bende funebri, la sua culla richiama un sarcofago, come a dire che la verità della vita è il dono di sè, è l’amore che si compie nella fragilità. Buon Natale!

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Pianto grato

Ho appena ripreso tra le mani alcuni appunti ideati a partire da una pagina di 1Re 3 dove si narra un sogno del giovane re Salomone. Sorprende notare che l’adolescente al potere non chiede successo, notorietà, forza militare, denaro, donne… ma sapienza e discernimento, giudizio ed intelligenza.  Salomone in altre parole chiede un cuore pronto ad apprendere, capace di interrogare e di lasciarsi interrogare, insomma un cuore ‘docibile’. Annotavo ironicamente, sempre tra le mie carte, come talvolta educatori, rettori, preti, animatori si gongolano nel vedersi circondati da una folta squadretta di disciplinati e di ‘docili’ discepoli, lusingati da tanta quietezza e ordine ed, ahimè, scordandosi di scrutarne il cuore per verificare se è aperto alla formazione, se è ‘docibile’ appunto, sensibile alle provocazioni divine, alle visite della provvidenza. Gettando uno sguardo in profondità, nelle mie regioni remote, ripensando all’intensa giornata di oggi, con i miei che celebravano il loro 50° di matrimonio, ad un tratto mi sono scoperto a singhiozzare come un bambino, o meglio sono scoppiato in un pianto di gratitudine e forse di liberazione, sentendomi un tantino in colpa, per non aver restituito a dovere per il sovrabbondante dono goduto come figlio. Genitori sicuramente imperfetti, ma comunque coppia solida  e bella, esperta nell’avermi allenato ad interpretare la vita come vocazione, abile nell’avermi introdotto alla relazione con il Mistero, splendida nel testimoniarmi quanto le ferite e il dolore contengono luce, generosissima nell’amore. E così dall’incanto della loro tenerezza e fedeltà di sposi e di genitori, se m’avvicino con discrezione e con animo ‘docibile’, continuo ad imparare la fortuna di essere loro figlio e figlio dell’Altissimo… e riprendo a versare calde lacrime, mi sciolgo in un pianto formativo che avverto alla fine come consolazione e grazia.

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Bellezza antica e sempre nuova…

NewmanPortrait-BlueSto leggendo in inglese di Newman ‘Prayers, Poems and Meditations’. E’ strepitoso! Traduco un breve passaggio: ‘La conoscenza di sé è alla radice di tutta la reale religiosa conoscenza… E’ vano, anzi peggio che vano, è un imbroglio e un inganno ritenere di comprendere le dottrine cristiane così, semplicemente lasciandosi insegnare dai libri, ascoltando sermoni… La conoscenza di sé è la chiave per arrivare ai precetti e alle dottrine della Scrittura’. Lo trovo di una bellezza folgorante.

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Aggregati londinesi

(Londra). Me le aspettavo queste folle londinesi, questi flussi, questi torrenti di esseri umani che si affrettano, s’affannano, si precipitano dentro gli intricati percorsi della metropolitana (Tube, così la chiamano). Eppure mi hanno sorpreso ugualmente. La differenza di volti, fogge, colori, lingue, tradizioni, intenzioni, provenienze è ancor più cosmopolita, globale, totale rispetto al 2002 quando arrivai qui per la prima volta. Un termitaio in continua sollecitazione e ebollizione nel quale è anche piacevole addentrarsi e quasi perdersi. Pensieri e sentimenti si generano in fretta di fronte a tale spettacolo. Ne prendo al volo almeno tre. Fin dai banchi delle Medie in Seminario i migliori e più intelligenti formatori insistevano nel dirci che l’uomo è unico ed irripetibile. Dove mi trovo si fa l’esperienza di questa verità all’ennesima potenza, in modo visivo ed incontrovertibile. Stupefacente esuberanza che rivela la bellezza e la ricchezza del Dio in cui crediamo differente da noi, sempre Altro  e che dispone alterità e differenza. Quanto meschini allora i nostri progetti per lo più inconsci dove tentiamo disperatamente di tenere gli altri sotto tiro e sotto controllo, quasi per renderli omologati ed uguali, a nostra immagine  somiglianza. E quanto commoventi di converso gli spazi che riusciamo a creare dove abita l’accoglienza, l’apprezzamento e la comunione delle differenze, la condivisione. Nonostante ci si esibisca in apparenze bizzarre, per dir poco, o si scoprano gambe e seni in modo deliberatamente provocatorio, o ci sia chi a 5 cm. di distanza, mentre risponde al cellulare, ti sta urlando letteralmente nelle orecchie, la Tube di Londra è luogo dove si incrocia una umanità ‘polite’, gentile, discreta, rispettosa dei turni e delle code, non chiacchierona e caciarosa, politically correct insomma. Tuttavia non convince. C’è un non so che di solitudine nello sterminato e cangiante scorrere di sagome. Ci si sfiora e si rischia di urtarsi, ma non ci si incontra. Ci si scambiano sguardi discreti e indiretti, ma non ci si guarda negli occhi. Ci si vede, ma non ci si riconosce. Ed è allora che si recupera la bellezza di appartenere a piccole comunità dove sono possibili relazioni di qualità, accompagnate dalla luce di un sorriso e dal profumo dell’amicizia. Ovvio, dico questo senza voler mitizzare il paesello, e scadere così nel patetico e nel provinciale. L’ultima considerazione è di tipo religioso. Quale potente sfida pone l’agglutinarsi di gente dalle provenienze così disparate alla fede? Ecco, il rimescolamento ininterrotto, costante che attraversa tutti i paesi europei, potrebbe essere avvertito come disturbo  e fastidio, oppure come occasione provvidenziale per annunciare un Dio che ama le differenze e che si nasconde in esse, per mettersi in discussione, per ascoltare ed imparare, per condividere, per cercare assieme le verità, o meglio ancora la Verità.

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Santa Cleopatra!

Molti si ricorderanno un simpatico Film di Roberto Benigni ‘Johnny Stecchino’ del 1991 dove la coprotagonista Nicoletta Braschi (moglie del Benigni) ad ogni piè sospinto intercala la sua volutamente goffa, sensuale e tenerissima interpretazione con l’esclamazione: ‘Santa Cleopatra’. Sembra una ridicolaggine, fin troppo banale per il nostro bravo Benigni, ma alla fine risulta geniale. E’ il segno di una donna che vede in profondità, che sa sdrammatizzare. La sua scelta finale appare perfida (nella finzione del Film ovviamente), e tuttavia non perde il fascino della sua intelligenza e abilità nel ridimensionare le esagerazioni del vivere. Pensavo che ‘Santa Cleopatra!’ fosse una ripresa ironica della famosa regina egizia, ed invece scopro che esiste veramente una santa con tale nome. Ma questo poco importa! Ciò che mi interessa è esortare all’arte della sana e santa ironia. Sta infoltendosi il gruppo di colore che provano amarezza e preoccupazione per quello che sta accadendo nel tessuto sociale, nelle relazioni ordinarie e pure dentro ai recinti ecclesiali. E’ vero: sta emergendo come virus trasversale un imbarbarimento culturale, un appiattimento verso il basso, una perdita di senso e di verità. Così rispondevo ad un amico il mese scorso che triste mi elencava una serie di mali antichi e nuovi (l’incredulità di Tommaso, il tradimento di Pietro, la domanda dell’apostolo Filippo, il fastidio di un cristiano alla porta della Chiesa di fronte ad un mendicante, il recente caso di pedofilia della Chiesa Italiana, le tentazioni demoniache varie…): ‘Condivido la tua apprensione. Tuttavia credo che tu debba, dentro al tuo arrovellamento, esercitare la virtù del discernimento. Non c’è tutto da buttare. Le domande di Filippo e di Tommaso sono un’ottima occasione di approfondimento del mistero. Il mendicare di fronte alle Chiese al 90% nasconde altri tipi di problematiche, che il soldino del cristiano sensibile rischia di coprire inconsapevolmente (la Caritas diocesana in tal senso avrebbe molto da insegnare). Il ruolo del demonio esiste eccome, e nel contempo non va enfatizzato quasi stessimo combattendo la guerra finale. Quindi io ritengo sia utile non drammatizzare eccessivamente perché andremo a finire col rincarare la dose facendo esattamente il gioco dell’Ingannatore. La preghiera di cui mi parli va praticata, ma accompagnata prima-durante-dopo dal discernimento. La Lectio Divina che hai appreso da un paio d’anni ti dovrebbe fornire le coordinate, gli strumenti, la coscienza per valutare e soppesare… per stanare il male e per apprezzare il bene, per metterti in stato di penitenza e per godere delle grazie accordate, per lasciarti in definitiva attrarre dalla Verità ed accompagnare da essa, altrimenti la lotta appare quasi disperata. Il figlio che affronta la lotta non è un ardito che si getta nella mischia affidando l’anima al Padreterno, ma un innamorato che proprio per questo non si dà per vinto e con fiducia gioiosa è pronto a far dono della vita. E ogni tanto esclama pure con gusto: ‘Santa Cleopatra!’’’.

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Vergine impossibile?

Scherzando con un amico, affermavo che oggi di vergine rimane l’olio di oliva o un certo tipo di lana. Forse anche quelli taroccati dai soliti cinesi. Al di là della battuta, abbiamo dimenticato che vergine è come dire innamorato, sposo, generoso e non frigido, stanco, pauroso di sesso e famiglia. Parlare di verginità potrebbe suonare proprio stonato,  sembrare fuori moda come il raccomandare una bella virtù alla quale credono ormai solo alcuni gruppi di tenaci settantenni. Nella migliore delle ipotesi potrebbe essere considerata un affare privato, come una sorta di eroismo, di sfida della quale vantarsi. Insomma un obiettivo più voluto che amato. Ma che ci stanno a fare i preti, i frati, le suore, i celibi per il Regno, le vergini consacrate… sono dei singles gelosi della loro autonomia, degli sterili ed inconcludenti zitelli, degli esseri che hanno dichiarato guerra aperta ai sentimenti, delle calotte polari? O dei poveretti da compatire, dei castrati volontari, dei votati alla tristezza della continenza? Oppure, è sbagliato sostenere che sono creature ferite dall’Amore, ammalate della nostalgia di Dio, piene di desiderio e di passione per il Bello? Qualcuno non smette di credere nel Vergine per il Regno, una sorta di vocazione ad essere segno radicale di passione assoluta per il Vangelo e per l’uomo. S. Agostino direbbe che noi siamo fatti da Dio e quindi fatti per Dio e che allora il vergine è chiamato a ricordare  questa verità che appartiene a tutti. Ovvero tutti sono chiamati a vivere una verginità ‘larga’, ad essere dono. Che lo vogliamo o no, un pezzo del nostro cuore rimarrà vergine, nessuno potrà occuparlo se non Dio, l’Amante, lo sposo geloso. Altro che paura  e meschinità! Altro che roba vecchia, da museo degli oggetti religiosi  e polverosi!

 

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Cerco un figlio!

Mi piace spendere due parole sulla recente storia del figlio, talvolta colpevolmente dimenticata. Lo scorso anno ad Oxford un paio di brillanti professori di lingua sulla quarantina nulla sapevano della famosa contestazione studentesca del ’68, pur essendo nipoti di quella stagione. In quegli anni è accaduto che il figlio decretasse la morte del ‘padre’ arrivando ad ucciderlo. Il padre rappresentava il vecchiume di cui sbarazzarsi. Era necessario smetterla con il passato, bruciare le bandiere  che apparivano prodotti formali e simboli pieni di vuota retorica,  mandare a quel paese l’autorità, affrancarsi dalle tradizioni, demolire le preistoriche istituzioni. Era il tempo del 6 politico, degli hippies e dei figli dei fiori. E così questo figlio, innamorato della sua libertà, è rimasto orfano del padre, quindi incapace di riconoscersi e alla fine privo della sua libertà, smarrito e solo. Ora si parla della generazione incredula, quella dei piercings e delle braghe basse tanto per capirsi. Ecco logica conseguenza: un figlio senza padri né Padre non si è più capace di diventare a sua volta padre. Ovvero, troncando con il passato e senza interesse per il futuro ci si tuffa nel presente, nel carpe diem di oraziana memoria (altro che giovanile novità). A furia di guardarsi l’ombelico è una generazione che rischia di ingobbirsi  e di uccidersi. Il figlio ha ucciso il padre e ora uccide se stesso. Il Vangelo lo trovo una proposta in controtendenza, perchè è determinato a recuperare il volto del figlio. Non siamo orfani, ma figli e figli tenerissimamente amati.

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