Omaggio al volontariato

Mi colpisce sino alla commozione la radicalità del gesto profetico della lavanda. Un gesto talmente significativo, quasi un sacramento, che viene ritualizzato e proposto all’interno delle liturgie pasquali. Esso rimanda alla missio di Gesù, alla sua vocazione di fondo ed anticipa il mistero della croce. Lui è il servo, e servo sofferente. Ottima icona alla quale ispirarci, per promuovere la cultura del servizio e del volontariato, cattolico e non solo. ‘Avendo amato i suoi, li amò sino alla fine’. Il servizio possiede una radice profonda, nasce dall’amore. Non è epidermico. Appoggiarsi sul ‘mi piace’, sul ‘me l’hanno chiesto’, sul ‘dai, facciamo uno sforzo’ rende il servizio precario e deboluccio. E’ la motivazione profonda che conferisce al servizio energia e slancio, quasi una risposta ad una vocazione del cuore.

Il servizio, come è inteso nella logica del Vangelo, supera la filosofia del part time o del ‘se mi sento’, tagliata sui bisogni soggettivi, più che su quelli oggettivi che ci interpellano. In questo senso non si calcolano le ore, non ci si tira indietro, si è affidabili al di là dell’umore dettato dalle circostanze.

Altra qualità del servizio, almeno come lo abbiamo inteso sin qui, è la libertà. Esso è libero di procedere anche quando incontra resistenze ed opposizioni. Incurante, senza amareggiarsi più di tanto, continua ad offrirsi. E’ contento di darsi, al di là di gratificazioni ed apprezzamenti. Libero e gioioso.

Vorrei idealmente omaggiare ed incoraggiare il popolo dei volontari. Esso è un fenomeno soprattutto italiano. Pur tra le sue contraddizioni e limiti, continua a dare segnali di tenuta e di buona salute. Se ci educhiamo a chinarci sui piedi dei fratelli, a piegare le ginocchia, ad indossare il grembiule, ci sarà una prospettiva di umanità e di speranza.

 

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Il falso di ‘Lei’

La visione di ‘Lei’, un film recentemente uscito che ha per oggetto la fantascienza tecnologica, mi stimola alcune osservazioni. Premetto che ‘Lei’ non ha nulla a che fare con polpettoni fantascientifici buoni per ragazzini sognanti alieni e mostri mutanti. La fantasia si proietta al massimo nei prossimi venti anni e ciò che si vede è altamente verosimile. Theodore, il nome del protagonista, un adulto non più giovanissimo con un matrimonio fallito alle spalle, scrittore di lettere per conto terzi, che detta al computer, solo e solitario, si innamora di Samantha. Della tipa non si vede un fotogramma, essendo una OS, ovvero un sistema operativo. Le scene narrate, la bravura del protagonista, la voce di Samantha morbida, vibrante ed espressiva rendono la relazione tra i due ‘consistente’, reale, più che virtuale. Qui sta la suggestione della pellicola. La storia diventa, da fantastica, una vicenda credibile, possibile, plausibile. Nulla di preconcetto in me contro il mondo tecnologico e virtuale. Fa problema invece la sovrapposizione dei piani, una commistione, dove è il virtuale a non rispettare più i confini del reale, creando un ambiente finto. Lei (Samantha) vede con la telecamerina dello smart di Theodore, lui sente la sua voce fresca all’auricolare. Si genera allora una intromissione tecnologica nella vita ordinaria, amicale e addirittura sessuale di Theodore. Efficace la scena di lui divertito, che dribbla le persone lungo corridoi, muovendosi ad occhi chiusi, guidato dalla voce di lei, o di lei, che si spaventa divertita da lui, che finge di impattare contro le persone per le vie affollate. Una invasione di campo, che notiamo anche nella decisione di effettuare una gita di fine settimana con degli amici, consentendo a Samantha di interagire con tutto il gruppo. Commistione curiosa di reale e virtuale, dove l’amica invisibile assume il ruolo di attore principale. Simile lo scambio verbale tra Theodore, la figlia e Samantha, dove quest’ultima assume il ruolo di compagna ufficiale di Theodore e si ingrazia la simpatia della piccola. Emblematica la scena del rapporto carnale (?) tra lui e ‘Lei’. Samantha, un sistema al silicio, appare capace di evolvere, di provare gioia e sconforto, di innamorarsi e di far innamorare, tanto che lui la definisce ‘persona’. E’ il massimo della falsità: il virtuale non si limita ad essere ingombrante, ma assorbe il reale pretendendo di essere lui stesso il reale per eccellenza. Un reale (assurdo ed ingannevole) più interessante, avvincente e bello, rispetto al banale e sbiadito reale della vita ordinaria. Amara e salutare scoperta poi, per lui, nell’apprendere, che Samantha stava intrattenendo relazioni simili alla sua con migliaia di utenti e centinaia di amanti. Il regista a questo punto metterà in bocca ai personaggi frasi chiave e ritornanti del tipo: ‘Bisogna chiamare le cose con il loro nome’. La verità, il rispetto delle identità, la cura per le differenze ci consentiranno di affrontare con spirito libero ed intelligente i potenti mondi del reale e del virtuale che si incroceranno e si inabiteranno sempre più? Che ne direbbe il nostro Theodore?

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Sotto una buona stella

Incuriosito dalla pubblicità alla tele e da una recensione di Famiglia Cristiana, mi decido per il film di Verdone ‘Sotto una buona stella’. Risate a crepapelle si sono alternate a commozione e …lacrime, tante. Alla fine della proiezione ne avevo la faccia lavata, eppure non mi sono vergognato. Un film per me liberatorio, intenso e rilassante. Andandomi a leggere alcune recensioni colte e giustamente critiche, ripensandoci sopra con occhi più attenti mi sono fatto un’idea meno entusiasta, e purtuttavia lo trovo comunque un bel film, nonostante le sue cadute di tono. La storia in effetti è una soap opera, leggerina, robetta per attricette. Una relazione interrotta, un padre che ‘abbandona’ i figli, una relazione con una giovane donna rampante, una carriera nel mondo della finanza. Quindi una crisi nell’holding finanziaria rispariglierà le carte, ma sempre di incroci relazionali all’italiana si tratterà.  Il ricorso al linguaggio volgare è regola abituale e centrale, per non citare tutte le ambiguità, le allusioni e le imitazioni del sesso in chiave comica che il regista poteva risparmiarsi. Aggiungasi che Verdone non mi è mai piaciuto, eppure… eppure la visione di ‘Sotto una buona stella’ rimane una buona scelta. C’è qualcosa ‘inside’ che mi convince, che mi attrae. Forse il fascino della bella Cortellesi? Direi che è una attrice splendida e simpaticissima. Non solo fa da àncora al Verdone, ma lo esalta, ne fa uscire il meglio di sé. Una coppia veramente indovinata. In ogni caso, parlando onestamente, l’elemento Cortellesi è importante nel mio giudizio, ma senza esserne quello decisivo. Ecco il punto: ‘Sotto una buona stella’ racconta i sentimenti. Racconta in modo vero sentimenti veri. La pellicola trabocca di tenerezza, di autentici sensi di colpa, di affetto, di repulsione e di attrazione, di innamoramento, di accoglienza e di perdono, di tristezza e di gioia, di noia e di stupore, di rabbia e di allegria. E i sentimenti veraci coinvolgono e commuovono. Ho il sospetto che la bravura nell’interpretare la sequenza dei sentimenti venga dalla trama quasi autobiografica. Gli attori, Verdone in testa, si sono così identificati due volte con il copione, avendo già vissuto nella vita reale esperienze similari. Inoltre, a dare un tocco di struggente umanità, è la fragilità dei personaggi. Essa emerge dalle piacevolissime gags, surreali talvolta e nel contempo molto quotidiane e nostrane. Forse esiste una motivazione ancora più profonda come ragione del mio voto alto al film di Verdone. Mi sto riconvincendo che la vita, per quanto santa e disciplinata sia, rimane cammino dove si fa i conti con la fragilità, il limite, gli imprevisti e gli incidenti vari, il peccato. E per vivere in modo normale e felice, equilibrato e santo, abbisognamo di prenderci in giro un po’, di sdrammatizzare. In altre parole, abbiamo il diritto ad una vita imperfetta. La smania della perfezione a tutti i costi, anche e soprattutto cristiana, ci renderà la vita una condanna, una corsa disperata a fare sempre meglio, complicandoci all’inverosimile le cose. Mi vien quasi da ringraziare il Signore, da ‘dargli un bacio’ per un Verdone, burino quanto si vuole, però capace di rilassarci perché ci restituisce la nostra umanità, bellissima pur con le sue inconsistenze. Umanità da redimere a da amare.

 

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Zoran Zagor

‘Zoran il mio nipote scemo’, film in visione attualmente nelle sale d’essai, mi ha incuriosito. Ne aveva parlato Famiglia Cristiana. Giuseppe Battiston, il protagonista principale, è friulano ed è friulana la prevalenza del set. Così me lo sono gustato con un gruppo di amici. L’overture può stomacare. Osterie, bicchieri di bianco e di rosso che vengono svuotati senza posa, avvinazzati d’altri tempi accompagnati da ‘villotte’ alcoologiche sembrano aprire uno spaccato sulla piaga del vino e… farlo senza rispetto e sensibilità per quanti la soffrono o l’hanno sofferta. Il tutto poi accentuato dalla brutalità del protagonista, anch’egli dedito a bevute quotidiane forsennate. Uno scenario dal quale in ogni caso emergono profili di umanità che commuovono, che fanno ridere e piangere insieme. Il fastidio iniziale lascia il posto, adagio adagio, alla distensione, al buonumore e alla speranza. Colpisce il mistero che la ‘storia spezzata’, la fragilità, l’esperienza di abbandono, porta con sé.

Paolo vive il dramma di una dipendenza da alcool disperata. È un quarant’enne con un matrimonio rotto alle spalle. Un insensibile patentato che con ogni probabilità è figlio della insensibilità, di un background famigliare di rifiuto. Un uomo spezzato che tende a spezzare, non solo metaforicamente, tutto e tutti. Compresi gli amori evidentemente più cari, e gli amici. Compreso un nipote sloveno che non sapeva di avere: Zoran appunto, ribattezzato grottescamente in Zagor. L’adolescente Zoran sembra condividere lo stesso retroterra dello zio.  È come un relitto, uno scarto consegnato nelle mani dello zio e in balia dello stesso. Storie spezzate che entrano in collisione tra di loro. Il tutto risulta essere una vicenda squallida di devianza sociale che produce altra devianza  e sofferenza. Una catena maledetta. Eppure sarà proprio il rifiuto, una ulteriore crisi, anzi un assommarsi di spaccature che ‘sveglierà’ il Paolo dal suo torpore, che ne farà uscire tutta la sua carica di umanità, di dolcezza e di bontà. Lo rigetta la ex moglie, che aveva ritentato di conquistare. Si becca una bella lavata di testa dall’amico del cuore. Una porta sbattuta in faccia da un collega di lavoro e la stessa ribellione del nipote faranno il resto. Paolo inizierà a sdrammatizzare, a ridere di gusto, anzi a crepapelle. Guarderà con occhi nuovi e affettuosi il nipote. Gioirà, forse per la prima volta in vita sua. Prende consapevolezza della sua meschinità e del suo cinico egoismo e nel contempo avverte che la vita riluce, contiene una bellezza che incanta. Essa lo meraviglia, quasi per contrasto. È lo stesso dolore che lavora, ora in senso opposto. La vita spezzata, o meglio nella vita spezzata può abitare una grazia grande. Proprio un bel film di Natale!

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L’odore delle pecore

 

Sento il piacere di condividere due mie valutazioni sul prete come pastore che, come afferma con naturalezza e fermezza l’attuale pastore Francesco, dovrebbe portare su di sé, sulla pelle e i vestiti della propria anima l’odore delle pecore. Sono convinto che nel clima culturale di oggi, presente nei prati delle parrocchie ‘medie’, il pastore è chiamato ancor più di un tempo ad essere abile nelle relazioni. Con questo non intendo dire ruffiano, gentile, carino, accattivante, scaltro e sveglio. Sarebbe solo un primo step, riduttivo ed insufficiente. Se il parroco si mettesse in testa di apparire a tutti i costi premuroso e gradito finirebbe col diventare la caricatura di se stesso e, prima o poi, farebbe i conti con la realtà che non risparmia a nessuno le sue durezze e… scoppierebbe. Per prete relazionale, abile e capace nelle relazioni penso ad accogliente, empatico, evangelicamente interessato, capace di ascoltare e di mettersi a servizio. La competenza cordiale e vera nelle relazioni è assolutamente centrale e necessaria. Prova ne è che quanti hanno delle fatiche e freddezze relazionali compromettono l’esito della loro pastorale, si incasinano e incasinano il prossimo. Inoltre un pastore che non si limita a proteggere il gregge, ma lo alimenta e lo incrementa in qualità, e perché no in numero, è uno che non temerei di definire ‘talent scout’, ovvero scopritore di talenti (spirituali). E quindi un uomo che ha fiuto per i talenti seminati con abbondanza dallo Spirito, un collaboratore stretto dello Spirito. Una volta scovati li dissotterra, li spinge a connettersi con gli altri, a trasformarsi in ricchezza da condividere. Che disgrazia incontrare un pastore che ambisce ad una eccessiva autonomia, che si arrangia da sé e si fa pure vanto di questo. E che gioia quei pastori che stanno tra le pecore, tra i loro odori, non lasciandosi scappare nulla di ciò che è buono, di ciò che possiedono perché circoli come latte fresco e patrimonio di tutto il gregge e di ogni altro gregge.

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La Mercedes

Ho ricevuto via e-mail questa divertente storiella :

L’ho inoltrata per posta elettronica, come spesso si fa, ad alcuni mie contatti …e dopo poco mi è arrivata, in risposta da un amico, quella che potrebbe essere la versione ‘pastorale’ della stessa storiella.

L’ho trovata divertente e mi faceva piacere condividerla con tutti voi, per farvi sorridere, sperando che nessuno si offenda…

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Vocato

In occasione del 25° della mia ordinazione sacerdotale la redazione del bollettino di Villotta di Chions mi ha chiesto 20 righe sulla mia vocazione. Eccole anche qui. Il primo aggancio ricordo fu la famosa ‘Due giorni’ in Seminario. Avevo 10 anni, venivo dalle campagne della mezzadria di Caorle e così mi ‘infatuai’ dell’ambiente: preti giovani, entusiasmo, canti, gioco, teatro… È curioso come Dio, senza strapazzare la libertà delle sue creature, giochi sulle prime attivando sogni e gusti infantili ed impossibili. Il seminario mi piaceva, mi è sempre piaciuto, ed immaginavo di lanciarmi in una festa senza posa e diventare un piccolo eroe. Dopo i primi anni di vita seminariale classica e tradizionale, incontrai la fase della crisi. Ero adolescente e capivo poco della contestazione studentesca e della crisi vocazionale. Il seminario si svuotò rapidamente. Rimasi con pochi, quasi non capendo. Triste per gli abbandoni, un po’ scombussolato dai primi ‘incanti’ giovanili, ma sempre attratto dalla vita ecclesiale. Più tardi nella fase iniziale degli studi teologici avevo pudore di esternare le mie intenzioni, non utilizzavo mai uscite dirette del tipo: ‘Voglio farmi sacerdote!’. Credo che in me ci fosse un misto di fede potente, di smania di protagonismo e di… incoscienza. A trent’anni nel pieno delle mie performance caddi nel baratro della depressione. In quel tunnel tremendo compresi le mie immaturità. Mistero grande e affascinante questo Dio che chiama dentro al buio del dolore e del nulla. Quasi si fa spazio per agire con maggiore scioltezza valorizzando la nostra debolezza. Per dire in ‘due righe’ che Dio ama, e proprio perché ama Egli chiama pizzicando misteriosamente sulle corde dei nostri sentimenti: attrazioni, curiosità, dolori, tristezze, entusiasmi e passioni. È tutt’altro che scontato interpretarne il ‘tocco’ e assecondare i Suoi di desideri, ma ne vale la pena.

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Appunti entrata a parroco di Villotta-Basedo

Entrata a Parroco

Don Fabrizio

A Villotta di Chions   29 Settembre 2012

 

Appunti per l’Omelia

 

  1. Vediamo di ruotare attorno alla Parola. Facciamo un paio di annotazioni ‘pastorali’. Così è possibile condividere che cosa frulla nella mia testa e nel mio cuore.
  2. Prendiamo le letture bibliche nel loro complesso. Individuiamo una parte construens, costruttiva e propositiva. L’altra destruens, demolitiva, purificatrice. Vanno combinate insieme.
  3. CONSTRUENS. Apprendiamo dal Libro dei Numeri un fatto carismatico-profetico. Dio toglie una porzione dello spirito di Mosè per distribuirlo sui 70 anziani-responsabili. Un paio di loro non sono nella tenda delle liturgie. Profetizzano nell’accampamento. Parte un intervento disciplinare per fermarli. Mosè non acconsente. Si evince qui una scelta ‘pastorale’ aperta, flessibile, non rigida, inclusiva. Anche nel Vangelo di Marco viene registrato un fatto carismatico-taumaturgico all’esterno del gruppo dei discepoli. Si innesca un intervento disciplinare per bloccarlo. Gesù non acconsente. ‘Chi non è contro di noi è per noi’. Gesù non si chiude rigido. Emerge una scelta ‘pastorale’ aperta, in dialogo, tollerante, collaborativa. Si direbbe che i testi evocano le scelte pastorali della nostra Chiesa locale relative al presente e al futuro. Siamo così chiamati a superare i recinti, le rigidità, a metterci in rete, a condividere risorse e carismi. E’ chiaro che le identità, i ‘campanili’, le diverse tradizioni vanno mantenute e amate, ma in un respiro largo, non autoreferenziale, fiducioso, facendole procedere a braccetto… Tale visione pastorale è nata per me attorno ai 31/32 anni. Iniziando a liberarmi dalle mie infatuazioni narcisiste, ad essere innamorato solamente di me e delle mie cose mi sono accorto della bellezza di ciò che andavo incontrando e che non era frutto delle mie mani. Quando si supera una sorta di iperconcentrazione su di sé, si avvia un sistema di integrazione, di inclusione.
  4. DESTRUENS. Occorrono evidentemente anche dei tagli e delle rinunce, gettando in mare la zavorra che ci rende impacciati e contraddittori. ‘La mano, il piede, l’occhio che scandalizzano vanno… tagliati’. Sarà necessario per esempio sbarazzarci dalla smania pagana di essere autosufficienti, dal bisogno di correre in splendida solitudine, dall’idolatria del ‘Chi fa per sé fa per tre’.
  5. Con onestà dichiaro che sarò prete a part-time, ma che non intende cadere nella tentazione miserabile di amare a part-time. L’intenzione piuttosto è di condividere, povero tra poveri, un pezzo di strada e il sogno di Dio.
  6. Ringrazio i confratelli. Don Basilio, don Aldo, don Luigi, il diacono Corrado… La comunità di Prata, gli amici… Il Sindaco, e autorità, le forze del territorio. In coda, ma in realtà in testa, la comunità di Villotta-Basedo. Mi hanno assicurato che il suo DNA è sano e promettente. Son grato dell’accoglienza e tenerezza già sperimentate. Un pensiero particolarissimo ai malati, ai soli, i piccoli… agli infragiliti.

 

 

 

 

 

 

 

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Cambio posto

Il segnale del trasferimento Prata – Vicario per la Pastorale/Parroco di Villotta di Chions/Assistente diocesano dell’AC ricevuto dal Vescovo Giuseppe curiosamente è stato la fotocopia del segnale ricevuto un paio d’anni fa per il trasferimento Meduno/Tramonti – Prata ricevuto dal Vescovo Ovidio, ovvero una pacchetta sulla spalla accompagnata da un invito poco più che mormorato: ‘Tienti pronto!’.
Immediatamente e a più riprese ho fatto presente, una volta conosciuto l’arcano, la mia breve, brevissima esperienza pratense, che necessitava di essere consolidata e di trovare il suo ritmo. Inoltre di essere tutto sommato un ‘animale da cortile’, da pastorale ruspante e casalinga nient’affatto aduso a livelli medio alti.
Alla fine ho risposto di si davanti ad una richiesta portata con energia, fidandomi (in)coscientemente più della provvidenza che delle mie personali risorse. Da non dimenticare inoltre la mancanza di una preparazione tecnica ad hoc. Insomma, una bella responsabilità (non mia) in un vaso di coccio (mio).
In parecchi mi chiedono lo stato d’animo che sto provando. Non faccio resistenze nel rispondere. Esiste come una sorta di coacervo magmatico di sentimenti: dispiacere di lasciare una comunità che amo (e sempre di più), entusiasmo e ansia per la nuova responsabilità diocesana, affetto per la comunità alla quale sono destinato, interesse per l’AC, Associazione nella quale sono maturato anche vocazionalmente, voglia di intraprendere e timore di scoppiare, sicurezza e smarrimento, percezione della mia pochezza e… una buona dose di fierezza narcisista (spina conficcata nel mio fianco e che morirà con me). Insomma un bel polpettone in salsa veneto/friulana.
Tutti sanno di una mia clamorosa disobbedienza al Vescovo Sennen che mi supplicò ben quattro volte di scendere in Kenia per dare il cambio agli altri missionari fidei donum. Ricordo ancora il pugno minaccioso con il quale colpì la tavola che ci separava ricordandomi quasi urlando (e aveva un milione di volte ragione) che: ‘I preti sono per il mondo!’. Ora credo convintamente che almeno lo sono ‘per la Diocesi’. Non siamo infatti dei self employer, degli artigiani con Partiva Iva disponibili al miglior offerente.
Domando a me stesso e alle mie pecore pratensi di considerare tutta la manovra con occhio credente, superando facili e scontate letture troppo umane. Altrimenti la cosa si spiega con ‘la solita manovra di palazzo’ che non tien conto di nulla se non delle sue burocrazie ed interessi. Il Signore mi custodisca dalla tentazione cafona e pericolosa di considerare la chiamata come una ‘promozione’ agli alti gradi della gerarchia. Si tratta di servizio, che andrà esercitato con generosità e possibilmente dimenticandosi della propria bella faccia.
Per il bene sponsale e quasi ‘geloso’ (da intendersi alla maniera paolina) che avverto per la comunità di Prata le chiedo già da ora di stendere un ‘bel tappeto rosso’ per il Parroco che verrà. Lui sarà lo sposo, e chi ama non ‘trattiene’ per sè.
Infine scoraggio eventuali manovre per ‘fare un presente al don che lascia’. Il dono più gradito consiste nel succitato tappeto. Tutt’al più e con assoluta libertà si faccia qualcosa per l’Oratorio o per le Missioni, rivolgendosi in questo caso al Consiglio Pastorale che conosce i miei desideri.

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La Bruna e Il Giglio

Pubblico un lavoretto commissionatomi dagli amici della Cooperativa Sociale Il Giglio di Porcia in occasione dell’anniversario della struttura purliliese. “Nella fase di partenza dell’avventura Giglio mi ricordo della Bruna indaffarata ad armeggiare instancabilmente intorno alla sua numerosa famiglia e alla nascente cooperativa, esuberante e pimpante, solare ed ottimista. Più volte l’abbiamo sorpresa con le lacrime agli occhi per il suo Simone o per le comuni preoccupazioni delle mamme, che tuttavia non le sciupavano il bel volto e il sorriso contagioso. Grazia che le veniva non perché si sforzava di apparire serena  e positiva, ma da un abbandono semplice ed intelligente alla provvidenza divina. Bruna aveva intuito con lungimiranza che era necessario dare continuità di accompagnamento ai diversamente abili, ne era quasi tormentata dal loro futuro: strutture mancanti, genitori destinati ad invecchiare, precarietà di sostegni, difficoltà di inserimenti lavorativi. Da donna generosa e determinata non si è lasciata andare alla lamentazione sterile e disfattista, al grido di:”Governo ladro!”, o all’apatia e alla rassegnazione. Ha saputo reagire e trasformare la sua situazione famigliare in redenzione per sé e per altri che si trovavano nelle sue condizioni. Lei allora ‘seme’ e germoglio del prossimo Giglio, a cui sono bastate inizialmente due stanze e quattro volenterosi. Una partenza assai francescana, approssimativa, fatta di entusiasmo  e di tanti sogni, ordinaria e geniale al contempo. Va notato un elemento di metodo: sin dai primi vagiti della neocooperativa, Bruna non si è mai incaponita  a sbrigarsela da sola, a giocare il ruolo di eroina della solidarietà, ma ha saputo con pazienza e saggezza tessere una tela di collaborazioni e di comunione. Mi si permetta di aggiungere un paio di riflessioni circa il contributo educativo di questa donna. La sua azione sociale ha generato una tendenza attorno a sé, un clima, un sentire insomma di cui esserle grati. Sono convinto che la sua capacità educativa, della quale forse non aveva coscienza percependosi piuttosto come la fondatrice, il gestore, la madre dell’opera Giglio, le veniva dalle sue ‘viscere di misericordia’, che sono poi quelle del Buon Samaritano, di Gesù prima della moltiplicazione dei pani di fronte alla folla affamata, del Padre misericordioso che si vede ritornare il figlio impoverito. In sostanza Bruna ha educato a trattare l’ultimo, con tutto il suo corredo di limiti e fragilità, con umanità. Ha umanizzato la disabilità, la malattia, il dolore, la precarietà. Quando si umanizza la sorte del fratello meno fortunato scompaiono le resistenze e i timori, si riduce la distanza e la solitudine, ci si incoraggia a procedere con speranza, si vede l’altro non nel suo aspetto fisico, ma nel suo mistero. Entrando al Giglio a tutte le stagioni non si respira aria pesante di tristezza e di malinconia, ma ci si tonifica come attraversando un giardino in Primavera. Un secondo contributo formativo Bruna l’ha consegnato educandoci ad una solidarietà biblica  e moderna, non pietistica e buonista. L’obiettivo era ed è quello di creare un luogo di solidarietà bidirezionale, ovvero di condivisione, di reciproca spartizione di beni dove nessuno viene trattato come un vaso vuoto da riempire. Ed è in effetti la sensazione che si prova quando si esce dal Giglio, di aver quasi ‘rubato’, portato via in sovrabbondanza amicizia, consolazione, slancio, gusto di vivere in termini assai maggiori rispetto a quello che si è portato. Non possiamo che complimentarci per l’anniversario del Giglio con Bruna, con gli operatori, con i ragazzi e le loro famiglie, con i volontari e benefattori, con tutte le istituzioni che si sono attivate. Sono convinto che il Signore quotidianamente benedice e bagna guardaldola con simpatia questa nostra e sua pianta. Auguri!”.

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