Gioia sostenibile?

In questa stagione dalle facili depressioni, e dagli umori tristi più che giustificati e comprensibili, ho letto da poco un paio di saggi dove si ragiona circa la “gioia possibile” oppure detta “felicità sostenibile”. Sono espressioni che condivido nella sostanza, che richiamano realismo e prudenza e che peraltro non mi convincono del tutto lasciandomi una impressione di una certa rassegnazione in partenza.

È evidente che il cuore non potrà mai ottenere sulla faccia di questa terra una gioia compiuta. Lo afferma prima e più autorevolmente di noi San Agostino quando scrive: “Tu ci hai fatti per Te Signore e il nostro cuore non avrà pace finché non riposa in Te”. Interessante questa conclusione che esce da un uomo bruciato dal desiderio di felicità. Tuttavia credo sia possibile osare di più, anche nel linguaggio parlando di felicità tout court senza paura di essere fraintesi, solo per amore della felicità. Io partirei quindi da una legge psicologica e spirituale insieme, legge che potrà sembrare strampalata o almeno singolare che suona così: “La gioia non va mai cercata direttamente”. È una tesi che a ben pensare sul fronte della esperienza non è difficile sostenere.

La gioia cercata intenzionalmente e direttamente si rivelerà inesorabilmente effimera, fugace. L’ansia che si tentava di cacciare si moltiplicherà. Si presenterà una fame ancora più assatanata di stima, di considerazione, di consolazione, di… felicità appunto. Infatti quando ci gettiamo sulle cose per possederle o andiamo a caccia di emozioni per gratificare all’istante i nostri bisogni, questi a breve scadenza si ripropongono più esigenti di prima, più intensi, più affamati, più insaziabili.

La felicità che si ottiene agendo d’istinto (va dove ti porta il cuore) sarà felicità nervosa e spesso insulsa che corrisponde allo sballo del Sabato notte e allo stordimento della Domenica mattina. Gioia allora frenetica e illusoria. Misteriosa allora questa gioia sempre più confusa con l’eccitamento. Più la si cerca direttamente e più scappa. Sentite, tanto per confermare, come si esprime balordamente, ma genialmente a tempo stesso il Vasco Rossi in una delle sue ultime canzoni: “Gioca con me. Fare l’amore è molto semplice. Non c’è nessun perché. Prendilo com’è”. Avvicinandosi alla verità centrale dell’uomo, che rimane misteriosa e non afferrabile in senso stretto, mi vien qui da proporre due altre tesi per aprire la strada alla “felicità sostenibile”, o meglio alla gioia come sale della vita. La prima suona in questi termini: “La gioia è figlia del LASCIARSI FARE più che del fare”. È essenziale che impariamo a lasciarci raggiungere dal bene, ad avere la libertà di lasciarci amare, di godere del bene ricevuto. Il credente in questo senso è davvero fortunato e se non gli accade di sentirsi fortunato allora è grave il suo stato di salute. A conferma di questa tesi, ricordo il rientro dei discepoli dalla loro esperienza missionaria.

Raccontano a Gesù le loro performances, i loro successi missionari-pastorali. Gesù li ascolta e poi li stressa rispondendo: ‘Non rallegratevi (ecco qui la gioia del credente) perché i demoni si sottomettono a voi, rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli’ (cfr Lc 10,20). Il gaudio del cuore, il godimento dell’anima sta nel sentirsi amati. Visto che la gioia non va cercata direttamente, la seconda tesi recita così: “La gioia è figlia o conseguenza di un fare buono, virtuoso, giusto”. Non c’è nulla di più appagante, godibile, rilassante che obbedire al proprio progetto vocazionale. In altre parole la coerenza produce gioia. Felicità vera, festa del cuore, voglia di vivere.

(09.08.2009 dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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2 thoughts to “Gioia sostenibile?”

  1. “La fonte della nostra gioia è nell’amore. E’ bello e gioioso amare.” E’ una frase di Don Luigi Monza che ho letto quand’ero ragazza, che mi è rimasta nel cuore, e di cui quotidianamente constato la veridicità.
    Amare è un’arte che non si finisce mai di imparare. L’amore possiede un’infinita varietà di sfaccettature e per scoprirle occorrono il nostro costante impegno unito alla buona volontà e alla preghiera. Gesù e Maria Sua Madre, sono i Maestri d’Amore per eccellenza.
    La scorsa settimana ho letto un commento di Sant’Agostino alla parabola del grano buono e della zizzania, che mi ha colpito e mi ha fatto riflettere. Diceva:”Molti prima sono zizzania e poi diventano buon grano. Se costoro, quando sono cattivi, non venissero tollerati con pazienza, non giungerebbero al lodevole cambiamento.”
    La tolleranza penso sia un elemento basilare in tutti i rapporti umani, a cominciare da quelli più stretti. Ma la tolleranza e la pazienza sono indispensabili anche per superare situazioni di difficoltà causate per esempio da malattie, lontananza, mancanza di un posto di lavoro, troppo lavoro…
    Proprio in questi giorni ho saputo di una coppia che si è lasciata dopo tre anni di convivenza, perché lei non tollerava che lui, piccolo artigiano, lavorasse anche il sabato.
    Se l’amore lo chiudiamo dentro a piccoli spazi ben delimitati, e non gli permettiamo di crescere, di espandersi, di adattarsi ai molteplici mutamenti di situazioni che la vita ci presenta, anche a costo di rinunce e sacrifici, prima o poi muore per asfissia, oppure si cristallizza, e allora non dà più gioia, ma solo noia.
    Mi torna in mente ora che qualche anno fa ho scritto una poesia che vorrei approfittare per dedicarla a tutte le coppie.

    RICETTA PER UN BUON MATRIMONIO

    Mescolate la speranza con la pazienza,
    la perseveranza con la tolleranza,
    finché ce ne saranno in abbondanza.

    Liberate la fantasia e la creatività,
    unite tanta solidarietà,
    ed il vostro cuore colmo di gioia sarà.

    Il sacrificio non vi spaventi,
    la vita a due è un’avventura, accidenti!

    Se vi accorgete di aver sbagliato, non temete,
    con fiducia e umiltà lo direte:
    non c’è colpa che l’amore
    non sappia perdonare.

    Metteteci un pizzico di allegria
    per mantenere l’armonia,
    aggiungete tanta buona volontà
    e l’amor mai finirà.

  2. Credo che la gioia sia espressione nobile e pura della felicità. Quando la sperimentiamo viviamo uno stato di grazia che ha il potere di sospendere e dilatare il tempo ma è un attimo destinato a finire. Al culmine dell’esperienza proviamo un sentimento di pienezza di appagamento ma è pur sempre un’esperienza precaria che noi non possiamo manipolare o addirittura gestire a nostro piacimento, non possiamo possederla e tantomeno pensare che sia un sentimento di natura individualistica.
    Fin da piccoli sperimentiamo la gioia nel riconoscimento del volto materno. E’ un sentimento di cui non abbiamo consapevolezza ma che nasce quando matura in noi la capacità di relazionarci. Nel momento in cui riconosciamo un volto familiare entriamo in relazione con lo stesso attraverso gli sguardi e le espressioni trovando appagamento al nostro bisogno d’amore. E’ una gioia inconsapevole, immatura che nasce non dall’individuo da solo ma da una relazione: dalla fonte della relazione ecco sgorgare limpida e cristallina la nostra prima esperienza di gioia.
    E’ un piccolo ruscello destinato a crescere attraverso alcune tappe evolutive importanti che come uomini sperimentiamo. Basti pensare al dono della vita. La nascita di un figlio è il dono più prezioso e nonostante vi sia la consapevolezza della sofferenza fisica la gioia matura che lo accompagna vanifica ogni paura. E’ anche in questo caso tutto nasce da una relazione, la relazione d’amore fra uomo e donna.
    La gioia non si può ridurre ad una meta raggiungibile con il proprio agire ma è l’effetto della ricerca di ciò che è in noi innato: l’entrare in relazione con gli altri, “ Non è bene che l’uomo sia solo”.
    La gioia tocca le corde dell’interiorità rifiutando ogni eccesso esteriore non ha nulla a che fare con successo, soldi, benessere, etc … è un’emozione non governabile.
    Sono convinta che sia strettamente legata alle esperienze della vita che non escludono il contatto con la sofferenza. Anzi a volte è dalla condizione stessa del dolore che si sperimenta la libertà di scoprire un bene più profondo. Il poeta Gibran scrive: “ quel pozzo da cui sgorga il tuo riso è lo stesso nel quale così spesso hai versato le lacrime, colmandolo”.

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