Conversione al timone

È veramente curiosa e saggia la parabola profetica del libretto di Giona. Si incontrano almeno due conversioni: quella della mitica città di Ninive, concentrazione di vizio e di violenza, e quella di Dio che si ‘ravvede’ del male minacciato. Manca all’appello quella di Giona. Il libro infatti termina tronco, siamo in attesa della sua risposta perché… spetta a noi. Su tale decisivo passaggio ci sono alcune note da non dimenticare. Vale ovviamente anche per lo scrivente. Ne richiamo alcune che presento in termini sintetici e un tantino scanzonati. Occhio allora alle conversioni rapide e radicali. È bene nutrire per tali repentini cambi di guardia una smaliziata diffidenza. concordia17L’autorevole San Tommaso insegnava che le leggi dell’animo umano, scritte dal Creatore, non si possono manipolare in quattro  e quattr’otto. Quando dura quindi una conversione? Inoltre non è da ingenui stare in guardia quando vediamo le tracce del moralismo o fiutiamo l’odore del volontarismo. La conversione è grazia, attrazione e desiderio. Le anime frigide e rigide da questo punto di vista sono quasi inconvertibili. Ed infine l’uomo in stato di conversione tende al bene, alla verità, a ciò che è giusto e buono. Da alcune settimane si è consumata in Italia la tragedia della nave da crociera ‘Concordia’. E’ stato uno spettacolo agghiacciante di immagini  e di contraddizioni. La nave si è rovesciata perché si è cercato altro rispetto a ciò che era bene fare e alla responsabilità. Quindi la conversione non è nemmeno una lontana parente della tristezza e della mortificazione, perché essa aspira alla gioia e alla festa per sé e per gli altri.

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Il terapeuta pic indolor?

È impressionante come Marco metta da subito in campo con insistenza ed energia il Gesù terapeuta. Evidentemente non il supermago dell’Oriente o una sorta di sbaragliatore titanico ed invincibile dei mali che affliggono l’uomo, ma Colui che guarisce, che consola, che si impegna di fronte a ciò che umilia e addolora senza tentennamenti, ma anche senza scorciatoie facili. Si è preso cura delle carni per segnalare che Dio si stava prendendo cura di tutto l’uomo, ad iniziare dal suo organo centrale, dal cuore come luogo del suo io, dei sentimenti, della libertà. La guarigione che abbiamo in mente è quella che domanda un lungo, paziente, fiducioso, diuturno processo che copre di fatto l’arco di una intera vita. Ci sono due forme di guarigione che qui mi piacerebbe evidenziare. Ecco la prima: l’indignazione. Sembrerà paradossale e strampalato, e tuttavia sono convinto che sia via intelligente e sanante. L’indignazione e la protesta sono uno dei primi passi da suggerire. E’sorprendente e persino scandaloso pensare che lamenti, imprecazioni, proteste coprono innumerevoli pagine bibliche. È sufficiente evocare i salmi o il libro di Giobbe. medicina-1 La rabbia, la pena, la ribellione, l’angoscia che il male genera sono materiale che può essere portato di fronte alla croce, nella relazione di fede. Si avvia così una lotta spirituale, credente, non semplicemente un arrovellarsi psicologico e depressivo. Ed è già preghiera, ricerca, guarigione appunto. Una seconda via liberatoria è la guarigione della memoria. Esiste un meccanismo di guarigione apparente e piuttosto comune: la rimozione, ovvero il nostro banale  e praticatissimo: ‘Basta non pensarci!’. Una drammatica illusione, o un equivoco che a lungo andare può costarci caro. Il materiale infetto, come una discarica abusiva, se viene allontanato e quindi accumulato ammala il cuore, produce un ‘percolato’ che fa sentire strani miasmi. Ovvio, il passato con le sue ferite non può essere cancellato, ciò che è stato è stato. In ogni caso possiamo accoglierlo, ridargli senso, integrarlo e alla fine guarirlo. Splendida figura quella di Santa Bakhita, tatuata in modo bestiale, e pensare che il suo nome significa ‘Fortunata’, eppure capace di trasfigurare le cicatrici permanenti da umiliazioni in motivo di gratitudine e di gioia. Potente farmaco di guarigione quello della fede, a riprova che il taumaturgo è ancora al lavoro.

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Servo inutile

E così il grande uomo stacanovista e nottambulo lo troviamo inchiodato a letto dolorante e infastidito, talvolta rabbioso. Uno spettacolo non proprio esaltante e una testimonianza povera. Dura prova per uno come me che ha il vizietto cronico di tener tutto sotto controllo e di non dover ‘dipendere’ dagli altri, preoccupato di dare un’immagine fresca ed aitante di sè. Avevo programmato anche i tempi del mio recupero, ma quelli li sta dettando il mio corpo e il volere della provvidenza che non coincide con il mio. Eppure avverto che dentro alla mia infermità si sta compiendo un mistero grande, di cui intuisco la forza e la fecondità. Uno degli elementi fondamentali della mia spiritualità, se non il centrale, è il Magnificat di Paolo, o la sua confessione di fede che si trova nella sua lettera più autobiografica (la seconda ai Corinti): ‘Quando sono debole è allora che sono forte’. Paolo irruento e narcisista doc si era lamentato ad oltranza per un limite di cui soffriva, una sorta di ‘spina nella carne’ come lui la chiama. Si era sentito rispondere da un Dio che non lo accontentava con la guarigione/liberazione: ‘Paolo ti basta la mia grazia, la mia forza si rivela pienamente nella tua debolezza’. Paolo impara allora a trasformare i suoi guai in benedizione. Sono qui anch’io a provare a balbettare una preghiera di gratitudine perchè nel patire si impara a com-patire, si recupera un pò di santa umiltà, ci si ridimensiona, si gusta cosa significa lasciarsi andare senza veder nulla sapendo che i Suoi occhi ci vedono e che la Sua presa non verrà meno, si gode la libertà evangelica di farsi da parte perchè gli altri e l’Altro avanzino e crescano, senza fare l’imbronciato e il risentito. Strana e preziosa scuola quella della sofferenza. Perdonatemi, qualcuno quando parlo così non mi segue, non mi capisce o viene addirittura disturbato e allora taglia, preferisce ascoltare altro o farmi parlare d’altro. Ma qui sta la mia fede e la mia terapia profonda, e… la mia gioia. Quindi non posso tacere, sento il bisogno di condividere questo dono per il quale non avverto meriti, ma solo grazia. Da ultimo sono riconoscente al Signore perchè mi ha dato di fare esperienza per l’ennesima volta delle consolazioni riservate ai celibi per il Regno dei cieli: ‘Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi…’. (Cfr. Mc 10). Ho avvertito la comunità solerte, affettuosa, vicina, solidale con il suo pastore. Ringrazio preti e laici, amici, collaboratori (ora si preferisce la parola ‘laici corresponsabili’, ma ricordo che collaboratori è parola più biblica e figlia della parola greca, moderna e antica, ‘sinergia’), medici, conoscenti, ragazzi, giovani e anziani… per avermi accompagnato e sostenuto. Un Natale insolito per me quello del 2011, da ‘servo inutile’, che ha fatto un passetto in più nell’intendere l’energia e la saggezza nascoste nella debolezza. Non c’è nulla di triste e di tetro allora nel bellissimo affresco che ho ammirato a Greccio, luogo che ha visto il primo presepe della storia. Il bambino nelle braccia di Maria è fasciato con le bende funebri, la sua culla richiama un sarcofago, come a dire che la verità della vita è il dono di sè, è l’amore che si compie nella fragilità. Buon Natale!

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Pianto grato

Ho appena ripreso tra le mani alcuni appunti ideati a partire da una pagina di 1Re 3 dove si narra un sogno del giovane re Salomone. Sorprende notare che l’adolescente al potere non chiede successo, notorietà, forza militare, denaro, donne… ma sapienza e discernimento, giudizio ed intelligenza.  Salomone in altre parole chiede un cuore pronto ad apprendere, capace di interrogare e di lasciarsi interrogare, insomma un cuore ‘docibile’. Annotavo ironicamente, sempre tra le mie carte, come talvolta educatori, rettori, preti, animatori si gongolano nel vedersi circondati da una folta squadretta di disciplinati e di ‘docili’ discepoli, lusingati da tanta quietezza e ordine ed, ahimè, scordandosi di scrutarne il cuore per verificare se è aperto alla formazione, se è ‘docibile’ appunto, sensibile alle provocazioni divine, alle visite della provvidenza. Gettando uno sguardo in profondità, nelle mie regioni remote, ripensando all’intensa giornata di oggi, con i miei che celebravano il loro 50° di matrimonio, ad un tratto mi sono scoperto a singhiozzare come un bambino, o meglio sono scoppiato in un pianto di gratitudine e forse di liberazione, sentendomi un tantino in colpa, per non aver restituito a dovere per il sovrabbondante dono goduto come figlio. Genitori sicuramente imperfetti, ma comunque coppia solida  e bella, esperta nell’avermi allenato ad interpretare la vita come vocazione, abile nell’avermi introdotto alla relazione con il Mistero, splendida nel testimoniarmi quanto le ferite e il dolore contengono luce, generosissima nell’amore. E così dall’incanto della loro tenerezza e fedeltà di sposi e di genitori, se m’avvicino con discrezione e con animo ‘docibile’, continuo ad imparare la fortuna di essere loro figlio e figlio dell’Altissimo… e riprendo a versare calde lacrime, mi sciolgo in un pianto formativo che avverto alla fine come consolazione e grazia.

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Mamma mia che Babele!

In questo scorcio di storia conflittuale e tesa, ma pur sempre storia benedetta dalla Grazia, mi piace andare con  la memoria all’immagine della Pentecoste. E’ un affresco pieno di speranza. A Pentecoste lo Spirito, la Ruah Jahvè, il Respiro forte di Dio fa irruzione nella stanza dove erano raccolti i discepoli del Risorto. Animati dalla Sua presenza iniziano a parlare lingue differenti: le lingue dell’area mediterranea e dell’area mesopotamica. Le lingue del villaggio globale di allora. E comunicando in lingue diverse si capiscono e vengono capiti. Nasce così embrionalmente un’Antibabele, una umanità riconciliata, una famiglia dove ci si intende. Questo è il sogno di Dio. Questo è il suo progetto sulla storia. Questo è ciò che accadrà nella sua interezza e intensità nell’eternità. Il desiderio di Dio si chiama: comunione delle diversità. Comunione quindi, non confusione, lacerazione, dispersione, divisione. Quanto sciocchi allora certi individualismi personali e financo di gruppo (la ‘mia’ famiglia: delle altre non mi interessa; il ‘mio’ partito, la mia Congregazione, la ‘mia’ Parrocchia, la ‘mia’ cultura…). Un’affermazione iper-accentuata e fissata del proprio ‘Io’ che non sente più necessario e bello il dialogare con il ‘Tu’ per fare comunione con lui. Nascono qui le varie solitudini, le conflittualità, i nazionalismi esasperati e radicaloidi… nasce qui Babele. Tutto ciò che si muove, dentro e fuori la Chiesa, nella logica della cooperazione, dell’ascolto, della fraternità  e della comunione ha a che fare con il Regno di Dio, è esperienza umana da benedire e già benedetta da Lui, il Dio amante della comunione, il Dio Trinitario che è in sé comunione delle differenze. Comunione, dicevamo, ma anche diversità.

Il Creatore stesso crea e vuole la diversità, la differenza. L’omologazione, l’appiattimento, l’uniformità lo angoscerebbe. Interessante l’analisi di chi scorge nella nostra cultura occidentale i segni di una ‘omosessualità latente’. Non nel senso che siamo tendenzialmente omosessuali e lesbiche (da un punto di vista sessuale), ma dall’atteggiamento omosessuale, cioè di chi mal tollera la differenza (l’omosessuale infatti è innamorato di chi è uguale a sé). Tanto nervosismo e intolleranza ha la sua radice anche qui: vorremo gli altri uguali a noi. Ci disturbano infatti quelli che ‘sentono’ differentemente da noi, chi non si organizza come noi, chi non ha gusti, tradizioni, cultura, identità religiosa, lingua come noi. Ma ve la immaginate una terra fatta di cloni e di fotocopie. Buffo, poi, osservare un sacco di giovani e di meno giovani che si illudono di essere originali e di distinguersi per il solo fatto di scoprire l’ombelico o di frequentare i pubs più gettonati, senz’accorgersi che così fan tutti. Un sogno, allora da condividere quello di Pentecoste: la Comunione delle differenze. Dove la differenza non si arrocca, non si avvita su di sé, ma impara ad apprezzare la differenza altrui e crea con essa, e grazie ad essa, comunione e famiglia. Non è forse questa la domanda attuale della nostra terra sempre più globalizzata? Don Fabrizio 04.05.2004

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Il Figlio

Mi piace partire dall’immagine del figlio, che in fondo è la nostra radice, la nostra identità, per interpretare la cultura nella quale ci muoviamo. In passato ho riflettuto a lungo sulla ‘morte del Padre’ decretata dall’ultimo scorcio di fine secolo. Quindi morte delle istituzioni, delle tradizioni, dell’autorità… della memoria, nel nome di un futuro svincolato da rigidità e legami, tutto pieno di libertà. I figli che hanno messo a morte il padre si ritrovano certamente liberi, ma altrettanto certamente disorientati, smarriti, ma forse non ancora consapevoli appieno del loro smarrimento perché ancora ebbri di una libertà ed emancipazione appena conquistata. Figli talmente smarriti e confusi da aver dimenticato la loro bellezza e dignità di figli. Ecco la mia tesi, o meglio: tesi di  alcuni analisti di area cattolica che condivido: i figli di oggi hanno dimenticato il Padre al punto da dimenticare di essere figli. Ahimè, grave perdita questa. Il figlio per natura sua è uno che viene generato: dai genitori, dagli educatori, dalle esperienze, dalla scuola, dagli amici, dal tempo, dalla terra… Per sé il figlio è tale perché vive una sana dipendenza da tutta una storia che gli è madre, che lo nutre, lo alleva, gli permette di essere quello che è. Il figlio se si mette ad osservare le cose dalla finestra della sua identità impara da solo a ringraziare, a stupirsi, ad esser contento per una vita che è generosa con lui, straordinariamente più generosa di quanto lui non lo sia con lei. Colui che guarda con occhio contemplativo intuisce la sua dignità di figlio, e la intuisce come realtà buona, anzi: molto buona. Il credente poi rafforza ulteriormente questa verità. Il credente contesta la presunzione di chi si crede padrone ed artefice assoluto della sua vita, della serie: ‘Io non devo niente a nessuno. Se ho qualcosa, me lo sono meritato’. Una certa fierezza per questo tipo di falsa libertà, anche se all’inizio può dare entusiasmo ed euforia, alla lunga lascia stranamente vuoti e freddi, non appaga. L’uomo credente avverte e afferra che tutto trova ed ha la sua sorgente in Dio, che è Padre ricco di bontà e di fantasia. E’ certo che pure lui è frammento concepito da questo Dio. Insomma, comprende con tutta la sua anima di essere figlio di questo Padre. Quindi non solo figlio di due genitori, ma figlio di questo Genitore. Ora, se la sua sorgente è divina, se il suo luogo di partenza è la misericordia e la bontà per eccellenza, è mai possibile che da questa sorgente scaturisca acqua inquinata? Dio non partorisce sgorbi, brutti anatroccoli, ma… figli… a sua immagine e somiglianza. Un tale figlio si sente avvolto, preceduto, accompagnato da una presenza amica, che è quella di Dio. Vive in relazione con Lui, senza sentirsi sminuito, bloccato, limitato. Non si immagina arrogantemente a partire da sé: ‘Cogito, ergo sum (Penso, quindi esisto)’ diceva Cartesio, ma a partire da Dio, dal Padre: ‘Cogitor, ergo sum (Sono pensato – da un Padre buono -, quindi esisto)’. La certezza di esserci perché si è stati voluti e amati, di esserci perchè Qualcuno ci ha preferito alla non esistenza, ci mette dentro la certezza di essere positivi, degni di amore, creature congegnate ad ‘immagine e somiglianza’, di essere figli, appunto. Tutto questo se vissuto non solo con la mente, ma con le energie del cuore, ha la capacità di suscitare stupore, di incantarci, di commuoverci. Il figlio che impara a riconoscersi così prova una grande pace dentro di sé, un senso gratificante di armonia. Sente il bisogno di restituire, di essere generoso con una vita generosa. Viene attratto irresistibilmente dal fascino dell’amore. Si sente capace di dare, di donare, di amare. L’ingratitudine e la presunzione partoriscono piccoli o grandi despoti che mangiano energie invece di distribuirne. Il figlio che ammazza il padre non imparerà mai a diventare padre. E ora abbiamo chiuso il cerchio. Solo la gratitudine genera gratuità, solo il figlio è in grado di essere padre. L’ingratitudine, l’avidità, la conflittualità violenta, la guerra, la paura non appartengono alla vocazione del figlio. (…)  30.03.2003

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Bellezza antica e sempre nuova…

NewmanPortrait-BlueSto leggendo in inglese di Newman ‘Prayers, Poems and Meditations’. E’ strepitoso! Traduco un breve passaggio: ‘La conoscenza di sé è alla radice di tutta la reale religiosa conoscenza… E’ vano, anzi peggio che vano, è un imbroglio e un inganno ritenere di comprendere le dottrine cristiane così, semplicemente lasciandosi insegnare dai libri, ascoltando sermoni… La conoscenza di sé è la chiave per arrivare ai precetti e alle dottrine della Scrittura’. Lo trovo di una bellezza folgorante.

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Santità con la muffa

Non intendo scandalizzare nessuno, ma quando penso alla parola ‘santità’ percepisco dentro di me una reazione istintiva di antipatia. E’ come se la santità fosse una vicina di casa poco attraente. Ecco dove sta il problema, che essa è uscita di casa per divenire la vicina sgradita. Il fatto è che mi evoca figure austere, pallide e ossute di Santi da altare con la smania dell’ascesi spirituale. Sembra compito per pochi addetti ai lavori, magari chiamati sin dall’eternità a votarsi e a svuotarsi per il Signore, roba per campioni olimpionici dell’anima che pur vincendo risultano sempre perennemente tristi. Confido, nello stesso tempo, che tale reazione in realtà lascia il posto, ed in fretta, quasi preparando la strada e provocandolo, ad un sentimento di curiosità e di fascino, proprio per la santità.  Infatti sono ricondotto a contemplare la santità biblica, quella vera, buona e finalmente attraente. Dalla sequenza delle pagine della Sacra Scrittura Dio si rivela come il Santo, il 3 volte Santo, il misericordioso, Colui che ama in modo totale e libero. Questo Dio troverà logico allora domandare con forza alla sua comunità: ‘Siate santi perchè Io sono Santo’ (cfr il Libro del Levitico). Comando ribadito ed interpretato dallo stesso Gesù: ‘Siate misericordiosi come il Padre vostro’ (Lc 6,36). Non è raro trovare in circolazione tra i credenti una forma di santità forzata e rigida. Chi la sceglie persegue il mito, perché improponibile oltre che irraggiungibile, della perfezione, e ahimè perfezione quasi sempre individualistica. Tipi simili sono dei gran lavoratori, stacanovisti, obbedienti ed irreprensibili. Temuti più che stimati. Troppa serietà però suona falsa e puzza. Visti da vicino, risultano appartenere alla categoria degli ‘affaticati  e stanchi’, dei cirenei controvoglia poco innamorati di ciò che portano e a rischio di depressione. Oppure si può individuare una santità al ribasso, mediocre e paradossalmente benedetta e raccomandata da qualche alto prelato. Mi è capitato un giorno di sentire un Vescovo del Nord che governa una piccola Diocesi del meridione che: ‘E’ bene andarci piano con i suoi preti! Poveretti, già è tanto che reggano al secolarismo imperante e non si becchino l’esaurimento nervoso. Se fanno la loro messa, curano il catechismo e l’Oratorio, danno una mano ai genitori a sistemare l’immancabile adolescente che dà di matto o a mediare le relazioni di una coppia che s-coppia questo mi basta’. Un realismo anche questo che sa più di sana organizzazione del lavoro, che di santità, o di donazione generosa, o di passione per le cose di Dio, o in definitiva di santità vera. E’ quest’ultima in fondo la santità che Dio desidera per tutti i suoi figli. Noi siamo congegnati proprio per questo, qui sta la nostra identità e la nostra vocazione: amare in modo gratuito e libero, donarsi con responsabilità, cercare il bene dell’altro. Una santità la nostra che domanda di essere declinata nella ferialità e banalità della vita, in modo corale e condiviso. Non c’è altra via per umanizzare la faccia della nostra terra, che lo si sappiano oppure no, che si sia credenti o meno. (06.06.2007)

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La paura primitiva

Usualmente trovo liberante e formativo raccontare l’esperienza drammatica della mia depressione a 32 anni. Dio mi ha lasciato macerare lentamente. Ora riguardandola posso solo benedirla e definirla la ‘mia storia di salvezza’. Non che mi consideri un arrivato. Non si può mai cantar vittoria. Tuttavia in quell’inferno interiore sono stato aiutato forzatamente a comprendere la mia verità e ad iniziare un percorso clinico, poi vieppiù formativo e vocazionale. Uno dei fondamentali che ho imparato è che ogni essere umano si porta dentro sin dagli esordi sulla scena della sua storia un ‘tarlo’, ovvero la paura di non valere. La domanda inconscia, quindi profonda e sconosciuta e proprio per questo pericolosa perché libera di agire essendo fuori controllo, suona più o meno così: ‘E’ proprio vero che conto?’. E’ come una ferita aperta, un sospetto che non dorme e che si agita, una paura primitiva, una domanda che non dà tregua. Dicevamo: un tarlo. Tale lavorio silenzioso può essere rinforzato da alcuni traumi più o meno gravi, più o meno fisiologici. Sto pensando a quelle inevitabili prove che si affacciano ad incominciare dal contesto famigliare ed educativo. Ovvio che non si resta inerti. Esistono allora delle strategie di lotta e di reazione istintive per venirne fuori, per guarire il dilemma. Si dà il caso che la quasi totalità i nostri tentativi sono votati miseramente al fallimento, o comunque non sono risolutivi, non convincono e non guariscono come dovrebbero. Molta sofferenza trova proprio qui la sua sorgente. Eccola allora la strategia del timido. Il tipo si chiude, tende ad isolarsi, se gli vien chiesto di intervenire pubblicamente arrossisce o impallidisce, il cuore gli batte a mille, guarda basso, non prende posizione. Il timido quasi rinuncia a lottare contro la sua paura: troppo faticoso. Preferisce obbedirgli e spessissimo non se ne rende conto. Crede di essere una persona educata e gentile, che non va in giro a rompere le scatole al prossimo e intanto lascia fare… anche alla sua paura. Oppure troviamo di segno opposto la strategia del bullo, del super-deciso, dell’uomo che sa il fatto suo con tutta una gamma infinita di espressioni autoreferenziali e autocelebrative. Ovvero il pauroso, colui che teme di valere poco, che si porta il peso di una certa disistima, si impone una falsa autostima, diventa Narciso, decide e si convince di essere il migliore. Il tutto anche in questo caso sempre senza avvedersene. Se le prestazioni e il consenso dell’ambiente possono dargli la percezione di valere veramente, in realtà il suo dubbio esistenziale continua a trascinarselo nel cuore. Narciso potrà solo illudersi di guarire. La stima che gli verrà dai suoi successi sul campo o dagli applausi degli altri potrà al limite rassicurarlo circa le sue bravure e le sue capacità, potrà essere sentita talvolta come intensa ed inebriante, ma rimane labile, bisognosa di essere rigenerata ad ogni piè sospinto domandando sforzi estenuanti. Il fatto è che i meriti dimostrati non placano, danno la certezza di valere per alcune abilità e competenze, ma non la certezza di valere al di là delle abilità e competenze, di valere per quello che si è, di valere per il fatto di essere figli, creature dell’uomo, creature di Dio. Lasciarsi finalmente amare senza la stupida presunzione di potercela fare da noi, di bastare a noi stessi, e imparando ad amare sul serio senza essere troppo preoccupati della nostra bella faccia è la strategia che può guarire la paura, darci la letizia profonda, la certezza gioiosa di valere. E da dove erano partiti un sacco di guai possono ripartire una serie di piacevoli  e provvidenziali benedizioni.  19.11.2007 dal ‘Bollettino delle Parrocchie della Valmeduna’

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Abbasso i preti che fanno politica!

‘Abbasso i preti che fanno politica e a tutti i cattocomunisti!’: così si sente mormorare o dichiarare ad alta voce anche nei nostri ambienti pastoralnazionali. Può esserci del vero. Infatti ci sono in circolazione cert’uni che trasformano le omelie in proclami elettorali o in programmi amministrativi. Non mancano poi, macchiette antiche e nuove, coloro che distribuiscono i fatidici ‘santini’ sopra la scrivania delle canoniche o spudoratamente al mercato paesano. In ogni caso, se togliamo l’anima politica e sociale al Vangelo, nella sua accezione alta e nobile, noi sfiguriamo il Vangelo stesso, lo deformiamo, lo riduciamo ad esercizio di pietà intimistica. La pagina della moltiplicazione dei pani e dei pesci è incontrovertibile. E’ testo di riferimento essenziale che assieme ad altri capitoli biblici rivela il pensiero sociale di Dio, la sua visione della città degli uomini. Lui domanda ai suoi figli, educandoli effettivamente e simbolicamente, la fraternità e la condivisione. Ieri, mentre consumavo la mia frugale cena serale, non per mancanza di cibo, ma forse per smanie dietologiche, sono sobbalzato sulla sedia disgustato ed incredulo. Il noto TG1 dopo 13 minuti di cronaca passa con sgradevole nonchalance al gossip estivo. Possibile!?! A ricordare l’urlo dei disperati nel corno d’Africa rimane solo il nostro Papa all’angelus domenicale? Ingioiellato alla bavarese via, come taluni sogghignano, ma tuttavia coerente e preoccupato. Dov’è finito il cattolicesimo sociale di inizio ‘900? E’ rimasto materiale per cultori delle foto in bianco e nero e per qualche appassionato di storia locale? ‘Voi preti occupatevi delle anime delle vecchiette, vicine alla meta finale! Lasciate che la politica la facciamo noi, maschi!’: bordata ricevuta a ripetizione da un amico, rappresentativa però di tutto un umore da retrobottega della nostra società e anche dei nostri ambienti parrocchiali. E chi sono i preti? Forse un terzo genere, neutro e asessuato, collocato tra femmine (o meglio vecchiette) e maschi? E che cos’è il Vangelo? Forse camomilla per vecchietti e donnine confuse?

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