Servo inutile

E così il grande uomo stacanovista e nottambulo lo troviamo inchiodato a letto dolorante e infastidito, talvolta rabbioso. Uno spettacolo non proprio esaltante e una testimonianza povera. Dura prova per uno come me che ha il vizietto cronico di tener tutto sotto controllo e di non dover ‘dipendere’ dagli altri, preoccupato di dare un’immagine fresca ed aitante di sè. Avevo programmato anche i tempi del mio recupero, ma quelli li sta dettando il mio corpo e il volere della provvidenza che non coincide con il mio. Eppure avverto che dentro alla mia infermità si sta compiendo un mistero grande, di cui intuisco la forza e la fecondità. Uno degli elementi fondamentali della mia spiritualità, se non il centrale, è il Magnificat di Paolo, o la sua confessione di fede che si trova nella sua lettera più autobiografica (la seconda ai Corinti): ‘Quando sono debole è allora che sono forte’. Paolo irruento e narcisista doc si era lamentato ad oltranza per un limite di cui soffriva, una sorta di ‘spina nella carne’ come lui la chiama. Si era sentito rispondere da un Dio che non lo accontentava con la guarigione/liberazione: ‘Paolo ti basta la mia grazia, la mia forza si rivela pienamente nella tua debolezza’. Paolo impara allora a trasformare i suoi guai in benedizione. Sono qui anch’io a provare a balbettare una preghiera di gratitudine perchè nel patire si impara a com-patire, si recupera un pò di santa umiltà, ci si ridimensiona, si gusta cosa significa lasciarsi andare senza veder nulla sapendo che i Suoi occhi ci vedono e che la Sua presa non verrà meno, si gode la libertà evangelica di farsi da parte perchè gli altri e l’Altro avanzino e crescano, senza fare l’imbronciato e il risentito. Strana e preziosa scuola quella della sofferenza. Perdonatemi, qualcuno quando parlo così non mi segue, non mi capisce o viene addirittura disturbato e allora taglia, preferisce ascoltare altro o farmi parlare d’altro. Ma qui sta la mia fede e la mia terapia profonda, e… la mia gioia. Quindi non posso tacere, sento il bisogno di condividere questo dono per il quale non avverto meriti, ma solo grazia. Da ultimo sono riconoscente al Signore perchè mi ha dato di fare esperienza per l’ennesima volta delle consolazioni riservate ai celibi per il Regno dei cieli: ‘Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi…’. (Cfr. Mc 10). Ho avvertito la comunità solerte, affettuosa, vicina, solidale con il suo pastore. Ringrazio preti e laici, amici, collaboratori (ora si preferisce la parola ‘laici corresponsabili’, ma ricordo che collaboratori è parola più biblica e figlia della parola greca, moderna e antica, ‘sinergia’), medici, conoscenti, ragazzi, giovani e anziani… per avermi accompagnato e sostenuto. Un Natale insolito per me quello del 2011, da ‘servo inutile’, che ha fatto un passetto in più nell’intendere l’energia e la saggezza nascoste nella debolezza. Non c’è nulla di triste e di tetro allora nel bellissimo affresco che ho ammirato a Greccio, luogo che ha visto il primo presepe della storia. Il bambino nelle braccia di Maria è fasciato con le bende funebri, la sua culla richiama un sarcofago, come a dire che la verità della vita è il dono di sè, è l’amore che si compie nella fragilità. Buon Natale!

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7 thoughts to “Servo inutile”

  1. La scorsa settimana, pensando al suo stato di salute, mi sono tornate in mente tutte le volte che anche a me è successo di essere ‘fuori servizio’.
    I periodi più difficili per me sono state le gravidanze. Abbiamo appena celebrato il Natale e fra pochi giorni (il 30) c’è la festa della Sacra Famiglia, quindi l’argomento cade giusto a proposito.
    Dal terzo mese, quando facevo il cerchiaggio (un piccolo intervento con cui chiudono il collo dell’utero), fino al parto, avvenuto all’ottavo mese per Lara e al settimo per Domenico, le ho trascorse dal letto al divano.
    Questi periodi mi sono serviti per generare una nuova vita, ma anche per ri-generarmi e fare un piccolo passo avanti sulla strada dell’umiltà.
    Mi sentivo come Cristo in croce, nell’impossibilità di fare qualunque cosa. La presenza di mia madre, vero dono della Provvidenza, ha permesso che i miei figli potessero venire al mondo.
    Non è stato facile. Ogni giorno dovevo combattere con la paura di dover rivivere le stesse esperienze traumatiche della prima maternità. La Fede e la Speranza sono state il mio sostegno e il mio conforto.

    Spesso mi sono chiesta perchè per farmi una famiglia abbia dovuto superare tante difficoltà. La risposta che ho trovato è che così ho potuto apprezzarla e amarla di più. Le cose conquistate con la fatica hanno un sapore molto più forte, più autentico, di quelle avute con facilità. E allora sento un profondo senso di gratitudine anche per gli ostacoli che ho incontrato sul mio cammino. Capisco che anche questi sono un dono, e anche noi, poveri Cristi, diventiamo dono:doniamo agli altri la possibilità di fare del bene. Altro che ‘servo inutile’!

  2. Ho molto apprezzato la tua scelta di rendere pubbliche queste tue intime riflessioni. Oltretutto, danno a noi l’opportunità di confronto sulla nostra personale reazione alla sofferenza.
    Il tuo persistente ed invalidante mal di schiena ha condizionato il Natale 2011…tuo e di tutta la comunità, alla quale è stata negata la tua presenza.
    Riflettendo, io riconosco alla sofferenza una grande capacità di insegnamento.
    Accettare di subire; tenere duro; stringere i denti vivendo, nella speranza che domani sarà migliore; non scoraggiarsi; non lasciarsi sopraffare da pensieri negativi; acconsentire a farsi aiutare; constatare che siamo assolutamente sostituibili (e meno male!), ridimensionarsi : sono stati d’animo che facciamo nostri solamente attraversando l’umiliazione del dolore, sottostando e lasciandoci piegare dalla sofferenza, mollando il controllo e mettendoci nelle mani di Dio.
    Attraverso la mancanza di autonomia, afferriamo queste sagge verità, che vanno ad ispessire la nostra presa di coscienza ed ad aumentare la personale conoscenza di noi stessi.
    Quando poi, avviene la guarigione, quando torna il benessere e troviamo grazia alla nostra preghiera, rivalutiamo ciò che ci viene dato ogni giorno e che troppo spesso diamo per scontato e preteso.
    Quanto sollievo, dopo, nel riscoprirci capaci di camminare con le nostre gambe!
    Quanta gioia, nel riconoscere poi, nella nostra vita, quanto amore ci viene solitamente riservato dal Signore! Amore troppo spesso non percepito, a cui non rivolgiamo gratitudine, tanto siamo supponenti ed arroganti nel pretendere di stare bene!
    Tuttavia, mi riesce difficile concepire la sofferenza, il dolore, come un dono!
    Te lo dico con grande sincerità, con l’affetto e la stima che nutro per te, mi sembra una visione un po’ masochistica e vigliacca della vita!
    La rifiuto, mi disturba, non comprendo, non riesco a ‘godere’ o a ‘rosolare’ nel crogiolo del dolore! Credo che il male si patisca, si subisca, e lo si debba combattere!
    Quella con il male è una lotta che può essere fisica o psicologica, ma pur sempre lotta!
    Non riesco ad ‘abbandonarmi’ ed ad accogliere il dolore. Io concepisco l’abbandono al bene, all’amore, alla letizia, al piacere o …alla morte.
    Così, (lo hai notato) io sono una di quelle che, quando ti sente parlare del tuo ‘gustare’ o del tuo ‘abbandonarti’ o peggio ancora del tuo ‘benedire’ la sofferenza, si innervosisce, prova disagio, agguanta la borsa e ti saluta…taglia…e non capisce! Perdonami!
    Ciò non mi esenta dal nutrire dei dubbi: e se fossi io ad avere una visione ‘piccola’ del vivere?
    E se tu avessi raggiunto una percezione così alta del dono della vita, da riuscire a ricevere positività, a cogliere gioia e benessere, anche dal dolore e quando ti è dato soffrire?
    Come vedi, c’è ancora cammino da percorrere…Guarisci presto!

  3. Ringraziamo il nostro “servo inutile” per averci donato, generosamente, ancora una volta, tanto di sé.
    Il desiderio di condivisione troverà cuori desti, altrettanto bisognosi di esaltare le virtù che fioriscono nell’affrontare le inevitabili difficoltà della vita.
    Ma, davvero, che differenza, quale diverso animo, quale sublime consolazione se, nel malessere, si percepirà anche la consolante vicinanza di Colui che, tutto comprendendo e assai perdonando, potrà nutrire la nostra coscienza di maggior consapevolezza, fiduciosa speranza e amorevole sentimento per se stessi, i propri familiari e il prossimo.
    Accompagnati da questo dolce pensiero, auspicando pure la presenza di un pizzico di buon umore e sana allegria, come raccomandava San Filippo Neri, ci avviamo verso la fine di questo 2011, rinnovando la nostra gratitudine a Don Fabrizio e augurandogli ogni bene e serenità .

  4. Carissima Donatella M.,
    ogni tanto vado a ‘Casa Lucia’ di Pasiano a trovare mia socera (la mamma del mio primo marito). Frequentando quel luogo ho avuto modo di vedere molti anziani sofferenti. La cosa non mi ha lasciato indifferente e così mi è venuta l’ispirazione per una poesia. Eccola:

    VECCHI

    Voi siete le radici da cui è nato l’albero della nostra vita.
    Siete un monumento vivente della storia del nostro Paese.
    Avete lavorato, amato, gioito, sofferto.
    Avete vissuto una vita intensa, piena di sacrifici.
    Quanto sudore! Quante lacrime!
    La vita vi ha provato abbondantemente,
    vi ha tolto le energie e a volte anche la mente.
    Ma anche adesso siete preziosi, siete i nostri parafulmini.
    I vostri acciacchi e le vostre sofferenze, unendosi a quelle di Cristo,
    contribuiscono alla redenzione nostra e a quella del mondo intero.
    Ma nulla di tutto quello che avete dato e continuate a dare, andrà perduto.
    Sarà racchiuso per sempre nella vostra anima, come in uno scrigno.
    Uno scrigno prezioso, che Dio aprirà con un sorriso,
    accogliendovi in Paradiso.

    In questa poesia ho messo in rilievo la sofferenza come mezzo di redenzione, per noi stessi e per gli altri. Ma soffrire è anche un modo per offrire agli altri l’occasione di compiere un’opera di carità. Se non ci fossero gli ammalati, non potremmo andare a trovarli, nè pregare per loro, nè aiutarl, nè curarli, nè asssiterli… E’ difficile da accettare, ma il mondo in cui ci è dato di vivere è fatto proprio così, e non per caso. Mi torna in mente la parabola della zizzania e del grano buono (Mt. 13, 24-43). In questo mondo il grano buono (il bene) e la zizzania (il male), devono crescere assieme, altrimenti, togliendo la zizzania si rischia di sradicare anche il grano buono.
    E’ proprio questa consapevolezza, il sapere che il nostro soffrire non è inutile, fine a se stesso, ma rientra nel Suo piano di salvezza, che ci dà la gioia che solo la certezza di appartenergLi, il sentirci in comunione con Cristo crocifisso, può darci.
    Penso che questa sia la realizzazione della beatitudine evangelica ‘Beati gli afflitti perchè saranno consolati’, che anch’io ho sperimentato in più di una occasione. Credo anche che sia la chiave che spiega il sacrificio dei Santi martiri, ad iniziare da S. Stefano, morto lapidato, che la Chiesa ha festeggiato pochi giorni fa.
    Mi sono interrogata a lungo sul perchè della sofferenza prima di trovare queste risposte, e spero che diano conforto a te come l’hanno dato a me.
    Aprofitto dell’occasione per fare gli auguri di un felice e sereno anno nuovo a te, a Don Fabrizio, a Gioconda (benvenuta nel Blog!), e a tutti quanti.

  5. Caro Don Fabrizio,

    leggendo le tue considerazioni sulla sofferenza sono stata stimolata a fare una riflessione.

    Premetto che fino ad oggi ho goduto di buona salute, non ho mai provato il grave dolore fisico o acciacchi sul mio corpo, più o meno forti e limitanti, causati da malattia, disturbi o infortuni protrattisi nel tempo.

    Posso rivelarti però una cosa. Diverse volte ho pensato alla mia sanità fisica non come a una condizione normale, scontata e dovuta, ma in termini di fortuna e di grande dono.

    Regalo che dipende da fattori genetici, da uno stile di vita equilibrato (non ho mai fumato, bevuto alcolici o compiuto strapazzi) ma che considero anche un dono che Dio ha voluto costantemente elargirmi, non perché io sia migliore o peggiore degli altri o abbia meriti particolari, ma che accetto con grande gioia, non conoscendo e comprendendo appieno le ragioni divine.

    Mi sento di affermare, che se nella malattia e nella sofferenza c’è il Grande Dono Divino della FRAGILITA’ CHE DIVENTA FORZA e penetra l’anima fino a diventare parte di te, nello stare bene, per i motivi esposti sopra, colgo il Grande Dono Divino della FORZA CHE DIVENTA FRAGILITA’.

    Questo secondo aspetto mi punzecchia suscitando una duplice reazione. Da un lato continuo ad essere fiduciosa e costruttiva nel mio agire, dall’altra parte mi sento “Un colosso dai piedi d’argilla” che può disgregarsi all’improvviso.

    Pensando ai miei piedi d’argilla mi sento piccola e ricordo la frase tratta dal Vangelo di Matteo “Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore verrà»; «Nell’ora che non immaginate il Figlio dell’uomo verrà».

    Non collego il Suo arrivo soltanto alla morte, ma a qualsiasi fatto, esperienza e incontro, negativi e positivi che ti cambiano o condizionano l’esistenza, come ad esempio la malattia.

    Non sapere quando il Figlio dell’Uomo verrà e come verrà mi inquieta e stupisce.
    Mi inquieta perché mi sento travolta dalla sua forza, contro la quale nulla tiene.
    Mi stupisce, perché se è venuto, ha ritenuto giusto farlo in quel momento, perché prima di arrivare, mi ha sempre amata, seguita e osservata.

    Però dubbi e interrogativi nascono in me e confermano quanto il confine della mia forza/fragilità, anche in termini di fede, sia labile, incomprensibile e misterioso.

    Nel caso di una eventuale malattia o infortunio, quali sentimenti e considerazioni emergerebbero dal profondo della mia anima ?

    Conserverò integra la mia fede, sarò umile, paziente, ancora capace di amare e di credere in Dio, oppure entrerò in crisi, diventando egoista, egocentrica con il rischio di rinnegare Dio ?

    Onestamente non lo so, perché, per paradosso, dal momento in cui ho ritrovato Lui, vivo la forza/fragilità della mia fede, sentendomi molto più bombardata da dubbi e incertezze rispetto a prima che l’Incontro avvenisse.

  6. Quando dico che Dio comunica con me, qualcuno mi guarda perplesso. Eppure sento che, attraverso il mio vivere quotidiano, da Lui ricevo risposte, verità, amore, che mi aiutano a mantenere viva la mia fede.
    Spero di non annoiarvi, ma per spiegarmi meglio vi devo raccontare la storia di Stefi, una donna meravigliosa e ricca d’amore, che il Signore ha avuto la bontà di farmi incontrare 25 anni fa. Stefi è la suocera di un mio amico fraterno, ha 69 anni e vive in Austria tra i monti, a circa 400 km da qui. La sua vita è stata così intensa e così ricca di avvenimenti, che potrebbe diventare un romanzo. Vi narro gli episodi più significativi: rimasta vedova a 29 anni, con due bambine di 6 e 8 anni (il marito morì per una crisi d’asma), si risposò pochi anni dopo con un amico di famiglia, anche lui vedovo con tre bambini, più o meno grandi come le sue figlie, ed ebbe con lui il suo terzo figlio; a 35 anni, Stefi si trovò ad avere una ‘vitale’ famiglia allargata, composta da sei figli; quando ebbe soli 46 anni, anche il suo secondo marito morì improvvisamente per un ictus; la sua vita continuò, sostenuta da una fede incrollabile, con un figlio adolescente da crescere e contornata dall’appoggio e dall’amore (grande davvero!) degli altri figli, già tutti sposati.
    Ironia della sorte, i suoi tre figli naturali vivono lontani da lei (una a St. Moritz, uno a Vienna e l’altra in Italia) ed il suo ruolo di mamma, nel quotidiano, lo condivide con i suoi figli ‘adottivi’, acquisiti dal suo secondo marito.
    In questi anni, ho avuto modo di approfondire la sua conoscenza e di frequentare spesso la sua casa e la sua bella famiglia, oggi arricchita anche da numerosi nipoti. Stefi è una donna semplice, modesta, essenziale, saggia. Il mio tedesco non è eccellente, ma siamo sempre riuscite a comunicare ed a capirci. L’ultima volta che ho trascorso una settimana a casa sua con mio figlio, fu dopo pochi mesi che era mancato mio marito. Lei mi ha aiutato a ritrovare un po’ di equilibrio, con lei mi sono sentita compresa, confortata, amata. Non mi ha fatto grandi discorsi o raccomandazioni, ma, di quei giorni, mi è rimasto il ricordo del suo sorriso dolce e dei colpetti della sua mano sulla mia, dicendo: “ich weiss, Dona… lo so…”.
    Un anno fa, Stefi, venuta in Italia a trascorrere da sua figlia le vacanze di Natale, manifestò un dolorino al centro del torace, frutto, secondo lei, di un colpo preso con il manico della pala, con la quale aveva tolto la neve dal vialetto di casa. Dopo esami, ecografie ed accertamenti del caso, la diagnosi fu drastica: tumore al pancreas, da operare immediatamente. L’intervento avvenne lo scorso febbraio, fu pesante da superare e fu reso più complicato dal sopravvento di un’emorragia, che la portò, per alcuni giorni, in fin di vita. Malgrado ciò, Stefi tornò a casa, debolissima, ma con un’immensa voglia di vivere. A marzo iniziò il ciclo di chemioterapia, anche se riuscì a malapena ad affrontare solamente poche sedute, a causa del grave indebolimento fisico, dovuto anche all’impossibilità di nutrirsi a dovere.
    Ai primi di dicembre sono venuta a conoscenza che Stefi è peggiorata. Ieri sera ho telefonato alla figlia, per avere notizie più precise, dato che è appena tornata, dopo aver trascorso il Natale da lei, in Austria. I medici le hanno riscontrato numerose metastasi un po’ in tutto il corpo e per Stefi non c’è più molto da fare.
    Ho saputo anche che, durante la malattia, non si è mai lamentata, non si è mai chiesta una sola volta: “Perché proprio a me?”, oppure: “Cosa ho fatto di male, per meritarmi queste sofferenze?”.
    Anzi!
    Prima che partisse, ha confidato alla figlia: “Questo appena trascorso è stato un anno bellissimo! La mia casa è stata, ed è, sempre piena di gente, che viene a sentire come sto, che mi porta una parola di conforto: io non credevo di essere così tanto amata!”
    Ecco perché lei è speciale per me: in tutta la sua vita ha saputo ‘bonificare’ il male, la sofferenza, il dolore e li ha tradotti in gioia, attraverso l’amore!
    Stefi è un esempio lucidissimo di fede in Cristo!
    Ho ricevuto da lei forse l’ultimo dono: una lezione di vita e d’amore.

  7. Il dolore, la sofferenza, la malattia, la morte: tappe della vita che non lasciano indifferenti. Volti segnati e provati da quella che si può definire: la più grande croce da portare. Tralasciando situazioni e dolori che hanno compromesso momentaneamente la mia salute non ho mai provato il dolore nel profondo del mio essere. Le diverse situazioni di malattie però che hanno intaccato i corpi di persone a me care e non solo, non mi hanno lasciata indifferente. La persona che prima vedevi piena di energie, piena di voglia di vivere, amante dell’avventura, si ritrova improvvisamente inchiodata in un letto a fare i conti con il proprio corpo che non ne vuole più sapere di riprendersi. Quella persona che fino ad allora era stata un “pezzo di roccia” ora è ferma, ora a fatica riesce a cavalcare l’onda che di là porta alla guarigione. E forse finirà così. O forse no…
    Vorrei ricordare una pagina che ho letto poco tempo fa. A volte cose copiate infastidiscono, urtano, innervosiscono. Perchè? Qualcuno non le avrà neppure lette, qualcuno avrà saltato le pagine…a me piace riscriverle. Le testimonianze (compresa quella del nostro servo in-utile o meglio utile-in direi…santa sofferenza, che con la sua tesimonianza ci ha emozionato o forse scombussolato) muovono dentro, interrogano, fanno riflettere, pensare, guardare da un altro punto di vista. Scrivendole, condividi pensieri e parole. E nello stesso tempo le interiorizzi, arricchiscono e te le ricordi, forse puoi averne bisogno in un periodo difficile della vita. E’ così trascrivo l’avventura di un giovane medico quando un giorno d’improvviso nella sua vita irrompe una grave malattia e con essa un iniziale senso terribile di impotenza, di solitudine fino alla tentazione del suicidio. Quando la realtà irrompe nel suo aspetto drammatico, contraddittorio, la disperazione sembra l’opzione più ragionevole, certamente quella immediata. Un percorso umanissimo lui ha fatto, fino ad accorgersi che la reazione che la paura detta non corrisponde veramente a quello che si è. La statura della nostra umanità è un indomabile senso positivo del vivere: l’io è un mistero più grande di quello che riesce a dire o a fare. E l’unica realtà che fa paura è quella pensata, immaginata, non quella che c’è, il cui sapore è sempre irriducibilmente positivo.
    Per questo la disperazione, la solitudine, il farla finita, abbandonandosi alla malattia non sono innanzitutto ingiusti moralmente, sono semplicemente inadeguati a quello che siamo.
    Mentre la malattia progressivamente ti blocca, l’io potentemente si afferma, più grande dei propri limiti, irriducibile alle proprie performances: così questo medico scopre un’inguaribile voglia di vivere, una gratitudine profonda per quanto nell’istante è dato, la dolcezza di un’impotenza che costringe ad un abbandono, la simpatia profonda per l’altro uomo che come lui soffre e lotta per l’esistenza.
    Il limite non è più una tomba, ma solo una risorsa creativa. Così la malattia del medico diventa una tenerezza, piena di speranza per i pazienti, che arriva fino a trasformare un grigio, desolato reparto di malattie neurovegetative, in un coloratissimo luogo di ospitalità e cura dei malati.
    Il medico racconta di sé seminudo in un letto: solo questa povertà nuda permette la scoperta della ricchezza vera di sé e della realtà. Le riprese dei malati di solito sono spesso di sotto in su, come a sottolinearne la statura umana, gli episodi raccontati poi, sono intervallati da una città vista dall’alto, come se la malattia fosse una montagna scalata da cui finalmente si gode lo spettacolo dell’essere. Perché il miracolo, sempre possibile, non è la guarigione, ma questa vibrazione di fronte all’essere che è il vivere da uomini. E quando un uomo, ha incontrato il vero, vibra di fronte agli uomini che lo vivono e ti viene voglia di abbracciarli.
    Mentre immagini di uomini e donne affrontano positivamente il dramma di una malattia così grave, vengono in mente le mille piccole contraddizioni di ogni giorno, che forse più sordamente uccidono speranza e desiderio. E ti risorprende una tenerezza per la tua povera umanità così piena di limiti e una simpatia per quello che ti è dato, tutto, dal respiro all’altro che incroci per strada.
    «La vita quotidiana è la più romantica delle avventure e soltanto l’avventuriero lo scopre», diceva un famoso scrittore: chi dal Mistero è chiamato a vivere alle frontiere drammatiche dell’esistenza, testimonia a noi questa grandezza nascosta in ogni nostro respiro.
    Facile a dirsi difficile a farsi…ma se un giorno dovesse capitare a me, avrei voglia e desiderio di viverla così.

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