Autore: Don Fabrizio
Forbice pasquale
La metafora della forbice la trovo “tagliente” ed efficace. Già negli anni ’80, tra i banchi dello studio teologico che frequentavo, studiando e commentando la dottrina sociale elaborata da Papa Wojtyla, la forbice ritornava come un refrain per evocare ingiustizia sociale, separazione, distanza (allora) tra Nord e Sud della terra, tensioni, discordia. Una forbice, maneggiata dall’arroganza e dall’istinto di predazione, che lacerava e lacera il tessuto umano facendolo sanguinare. Nel contempo una forbice da “chiudere”, come recita intelligentemente e responsabilmente lo slogan dell’alleanza “Chiudiamo la forbice”. Il patto nasce per segnalare le separazioni e le polarizzazioni esistenti, per studiarne i meccanismi e proporne delle prospettive di superamento.
Poco prima della crisi finanziaria ed etica del 2008 partecipai ad un viaggio missionario in Africa. La guida, un missionario di lungo corso, ci invitò a scrutare la distesa notturna della savana. Dal nostro punto di osservazione si presentava come una sorta di vasta conca che si separava dal monte Kenya. Ci colpirono alcune “inspiegabili” lame di luce poste in modo irregolare a fendere il buio sul terreno. Scoprimmo il giorno seguente essere delle serre di proprietà di grosse multinazionali – illuminate a giorno ed innaffiate da acqua potabile – per la coltivazione delle rose e dei fagiolini destinati ad arrivare sulle tavole europee. Accanto, villaggi di migliaia di lavoratori pagati 2 dollari al giorno, senza luce elettrica e privi di acqua. Un presagio, o – meglio – un segnale di una triste e lunga catena di storie non raccontate di sfruttamento e di iniquità. Esse arrivano dal passato, ed ora vengono riedite nella versione di esodi migratori, privazione del cibo necessario, concentrazione colossale di potere economico nelle mani di pochissimi super ricchi (vedi le analisi autorevoli di Oxfam), polarizzazioni culturali… guerra e guerre, una guerra – folle e feroce – di aggressione all’Ucraina.
Appoggiandoci all’intelligenza teologica del Vangelo di Giovanni, potremo dire che Dio ha tanto amato il mondo da immergervi il Figlio (cfr. Gv 3,16). Un battesimo nelle aspirazioni e nelle speranze, come pure nelle contraddizioni e lotte crudeli dell’umanità sino al punto di consentire alle misteriose forbici del male di “lacerarlo”. Uno squarcio generativo, infatti “dalle sue piaghe siamo stati guariti” (cfr. 1Pt 2,24). Perché non contemplare con ammirazione la solidarietà larga per i profughi, l’intercessione di tanti piccoli, i primi tentativi di immaginare un nuovo ordine mondiale fondato sui beni comuni e sul bene comune come le cicatrici di una guarigione, in parte accaduta? Sono tutte tracce, umili e povere eppure veraci, dell’azione del Figlio. Egli non si è fermato di fronte al muro dell’ostilità e del rifiuto, anzi ha reso la sua faccia dura come pietra (cfr. Is 50,7) per demolire ogni muro di inimicizia, per ricostruire una fraternità infranta e riconciliarci con il Padre (cfr. Ef 2,14.16). Il gemito della terra e il pianto degli umani non sfugge alle orecchie del cuore materno e paterno di Dio.
Il Signore Gesù, morto e risorto, è simile ad una pianta recisa e rifiorita. Una pianta misteriosa che affonda e allunga le sue radici per trasformare ogni scenario desolato e funereo in un’oasi di speranza. «Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,17). Buona Pasqua!
Don Fabrizio De Toni
Assistente centrale Settore adulti AC e Mlac
articolo pubblicato l’11 aprile 2022 sul sito
Transizione e conversione ecologica
Le due prospettive, la prima culturale e politica – la transizione ecologica – mentre la seconda tipica del magistero bergogliano – la conversione ecologica -, pur partendo da presupposti differenti non sono divergenti, anzi! Entrambe si riconoscono, si rinforzano, si cercano e si stanno alleando nella riflessione e nella prassi. I movimenti ecologisti e green del secolo scorso, nati come reazione ai disastri ambientali dovuti al cambiamento climatico, all’inquinamento e alla voracità energetica, da aggregati di nicchia si sono trasformati in sensibilità culturale diffusa. L’attivista Greta Thumberg e i correlati Fridays for Future sono una espressione iconica ed efficace di una attenzione planetaria sempre più condivisa.
Non solo, la passione ecologica sta generando azioni creative e articolate di cittadinanza attiva – tra le quali possiamo annoverare il “Contest di progettazione sociale Mlac” -, insieme a progettualità politica strutturale (vedi l’agenda ONU 2030). Ovviamente con tutte le contraddizioni e i ritardi del caso che conosciamo. L’obiettivo è di invertire la rotta ecologica, attivando politiche, prassi, stili di vita che abbiano con la terra un impatto sostenibile e responsabile.
L’oikos,casa comune e bene comune, se trattato con intelligenza etica ci consente di esperimentare la gioia della vita fraterna, e nel contempo di consegnarlo come eredità integra alle generazioni che
attendono. Andando ai fondamentali teologici che riguardano il rapporto uomo e ambiente, incontriamo nel libro della Genesi gli imperativi soggiogate e dominate la terra (cfr. Gen 1,28). Essi possono dare l’impressione di un approccio di timbro predatorio e addirittura di considerarlo legittimo. Ad una lettura meno superficiale si scopre che l’uno è legato all’esplorazione di un territorio sconosciuto (soggiogate), mentre l’altro (dominate) all’attività affettuosa e solerte del pastore buono. Si coglie perciò una esortazione ad entrare nel giardino della creazione con stupore, gratitudine, intraprendenza e assennatezza. Poco oltre, nel medesimo libro biblico, ci imbattiamo nei verbi coltivare e custodire (cfr. Gen 2,15). Vanno presi come altre due coordinate che Dio consegna all’uomo, integrando ed ampliando le precedenti. Suggestivo risulta il sapere che l’azione del coltivare viene presa dall’ambito liturgico e quella del custodire dalla fedeltà all’alleanza che corre tra Dio e l’uomo. Agli occhi del credente il lavoro appare come una preghiera, un canto liturgico, una trasformazione e una offerta celebrativa, ed insieme la cura e la custodia si caricano di senso relazionale, vale a dire vengono interpretati come obbedienza ai comandi e ai piani di Dio: è Lui il primo ad aver cura e a custodire. Da queste poche note, che andrebbero allargate in uno studio serio e approfondito, si evince già come la conversione ecologica si fondi su una relazione di fede. Lo sguardo credente e contemplativo sulla creazione non ci distrae con visioni romantiche e fughe dalla storia, infatti ci spinge alla partecipazione e al servizio, fornendoci motivazioni, obiettivi e passione.
Inoltre, il magistero che sostiene e argomenta la prospettiva della conversione ecologica si approccia all’ambiente in una visione – e quindi in una strategia – integrata e sistemica, arrivando a coniare la felice espressione di “ecologia integrale”. Tutto in fondo è connesso (cfr. Laudato si’) e in rapporto reticolare tra ambiente, culture, economia e politica. L’interpretazione globale nel pensiero teologico e sociale evita la frammentazione; riesce a cogliere nella crisi etica e nella tecnocrazia dominante, con una analisi lucida e profetica, la radice dei guasti planetari; in aggiunta favorisce una attenzione ai più svantaggiati, generati dalle emergenze ambientali e dalle conflittualità sociali. Non ci si scordi che i piccoli e i crocifissi sono i prediletti di Colui che ha immaginato e creato tutte le cose. Fenomeni come la pandemia o il più recente e pericolosissimo scontro bellico in Ucraina andrebbero affrontati con gli strumenti offerti dal magistero, intuendo alla fine che la terra e l’uomo domandano una conversione, un “contest” (gara) di immaginazione, una ideazione dando gambe a nuovi modelli di abitare, di cura, di incontro fraterno.
Don Fabrizio De Toni
Assistente centrale Settore adulti AC e Mlac
articolo pubblicato su
Il coraggio di progettare
Il titolo suggeritomi “Il coraggio di progettare” contiene un sostantivo che la situazione pandemica, lentamente mutante in post pandemica, invoca. Essa infatti interpella gli animi, e nel contempo le istituzioni, compresa l’ecclesiale, ad un coraggio intraprendente. La relisienza è necessaria ed eroica, ad ogni buon conto da sola non è sufficiente. Alle insidie virali, con le sofferenze e i danni correlati, non basta opporre l’argine della tenacia. Esse domandano di essere superate e trasformate in lezioni dalle quali apprendere ad immaginare nuovi stili e cammini. Ed ecco allora affacciarsi il verbo progettare, da “pro jacere” ovvero “gettare avanti” lo sguardo, con speranza. Beninteso che la Bibbia non è opportuno scambiarla per un “Bignami” pronto per ogni occasione; tuttavia, può essere interrogata circa il progettare, con l’intento di ricavarne alcune linee guida sapienziali. Affondando la mano in tutta libertà per rapinare alcuni fili di perle dal grande baule della Sacra Scrittura, con umiltà, ci vengono sott’occhio alcuni passaggi. Ne scelgo due. Marco, nel primo capitolo del suo vangelo, costruisce volutamente una giornata ideale di Gesù. Emerge in forma schizzata uno “schema progettuale”. Il tempo non veniva impiegato a casaccio o consentendo ai bisogni di volta in volta incontrati di dettare i modi dell’impegno, in una continua improvvisazione e variazione. Egli pregava, predicava, guariva e godeva dell’amicizia. Le ore quindi erano ben scandite dall’attività pastorale, terapeutica, orante e relazionale, anche se non vi era rigidità. L’obiettivo che premeva nell’animo del Maestro stava nell’annuncio del Regno, e il dinamismo missionari andava in qualche modo ordinato per non essere dispersivo. Andando alle Beatitudini di Matteo, contenute al capitolo quinto, troviamo un testo che si presenta tecnicamente come Vangelo, lieto annuncio, voce profetica. Nello stesso tempo, tenendo per vero che una delle connotazioni trasversali dell’opera di Matteo è il “fare”, l’operatività, la concretezza, le Beatitudini si possono considerare un manifesto progettuale. Posto attenzione a non scambiarle per un programma formativo articolato e compiuto, o per un progetto sociale e politico, esse rivelano il disegno complessivo del Padre per i suoi figli. Un disegno da cui si traggono atteggiamenti, indicazioni, principi etici che possono già essere tradotti in valutazioni, scelte, pratiche. Più ancora, sono come un materiale grezzo che andrà elaborato, sviluppato in itinerari, iniziative, cultura… progettualità appunto. Gesù apre il cantiere della salvezza, pone la prima pietra, anzi è la pietra d’angolo (cfr. Mc 12,10), per una costruzione che richiede l’azione dello Spirito e la cooperazione permanente dell’uomo. Lo slancio missionario e operativo dell’evangelizzatore e del costruttore di pace e di fraternità sa inoltre che lo attendono ostacoli ed impedimenti, dai quali può ricevere – per grazia – un misterioso impulso sempre dallo Spirito, così da non scoraggiarsi. A questo punto va detto che il principio e fondamento che ispira e anima la progettualità è l’Incarnazione. Il Figlio si fa uomo, la Parola diventa storia. Dal semino del Vangelo cresce la pianta del Regno, un embrione di Chiesa, che adagio adagio nel lungo percorso storico – attraverso discontinuità, sfide e sperimentazioni – darà vita ad una sorta di grande albero, avvicinandosi al quale si può osservare una strutturazione ecclesiale, la composizione del canone biblico, il sedimentarsi degli studi teologici, la modulazione di forme nuove per l’annuncio, la ricchezza liturgica, la fantasia caritativa, la fecondità culturale… Insomma, una progettualità incalzante, dettata dall’azione dello Spirito. Noi evidentemente siamo coinvolti ad elaborare con metodo e organicamente l’ultimo tratto di strada che arriva dalla spinta dell’Incarnazione. Essa va assecondata con slancio, tenendo ferma la barra per non cozzare nella navigazione sugli scogli di “Scilla e Cariddi”, perciò per una pesca fruttuosa che si tenga lontana dalla tentazione dell’iperattivismo affannato e esagitato o per converso dall’accidia e dall’astrazione. Non ci resta che piegare le ginocchia e… rimboccarci le maniche. Al… lavoro!
Don Fabrizio De Toni
Assistente nazionale Settore adulti AC e Mlac
Spiritualità e sicurezza sul lavoro
I dati sono spietati! Contestualmente al ritmo di tre morti sul lavoro al giorno in Italia, le cronache e le indagini degli organismi deputati alla tutela e sicurezza professionale – stando ai loro data base – confermano nei mesi della pandemia un ulteriore triste incremento. Le chiamano giornalisticamente e ambiguamente “morti bianche”, in realtà sono frutto di responsabilità individuabili. La fretta di riallinearsi economicamente, insieme alla brama di accumulo e alle negligenze/superficialità evitabili portano ad abbassare gli standard di sicurezza. Perché tagliare su protezioni, dotazioni antinfortunistiche, formazione per procedure adeguate quando ciò comporta costi sociali elevati, e danni scandalosi in termini di perdita di vite umane e di esborsi economici per riparare l’offesa al diritto sacrosanto della sicurezza, che tra l’altro rientra insieme al lavoro dignitoso tra i goals dell’agenda 2030? Qual è il vantaggio? Attorno ai macabri elenchi di incidenti mortali, si aggiungono le liste di coloro che incontrano la morte per malattie professionali e correlate. Inoltre si aggiungono gli infortuni gravi, che comportano menomazioni e invalidità permanenti. Che dire sotto il profilo di una lettura credente? Si chiede anche alla spiritualità della vita laicale e lavorativa una chiave interpretativa. La Sacra Scrittura, oltre al magistero, possiede delle pagine dalle quali trarre indicazioni e riferimenti? Proviamo a reagire con alcune considerazioni, senza pretesa di sistematicità e di esaustività, con il proposito di tenere aperta una meditazione che parta direttamente dalla fede. Dietro ai numeri e alla loro freddezza è bene non scordarsi che vi sono persone, volti, biografie… lutti, ferite, drammi. Perciò la salute e la sicurezza di quanti lavorano sono argomenti che vanno trattati con le dovute competenze, alle quali unire rispetto per i tanti che hanno patito e compassione per coloro che soffrono. Continuando, interrogare la Bibbia alla voce sicurezza sul lavoro è tentativo votato a fallire. Va detto che la Sacra Scrittura non fornisce decaloghi e regole che disciplinino oppure indirizzino ogni ambito dell’agire umano. Chiunque ne abbia una qualche famigliarità sa bene che non la si può scambiare per il Manuale delle giovani Marmotte. Certamente sin dalle prime pagine di Genesi si incontra il disegno del Creatore che attribuisce il massimo di dignità e bellezza all’uomo lavoratore, senza nascondere una serie di risvolti spiacevoli, dovuti all’arroganza umana. Così l’adam, il terrestre, conosce il sudore e la fatica del coltivare la terra, e Caino alza la mano sul fratello, ingelosito dal maggiore apprezzamento dei frutti del lavoro di Abele. Dio rivela il suo disegno, e dall’impianto del suo progetto di senso e di salvezza si possono trarre in seconda battuta riferimenti etici e orientativi. Già le pagine del testo sacro contengono abbozzi di teologia, un pensiero organizzato e ordinato. Esprimendoci liberamente, si potrebbe affermare che il primo tentativo di magistero sociale lo troviamo nei vangeli. Tuttavia per arrivare a ciò che conosciamo come Dottrina Sociale sarà necessario attendere la Rerum Novarum del 1891. Leone XIII, pur nel quadro di un intento ambizioso ovvero lanciare una campagna evangelizzatrice su larga scala per ripristinare uno status di cristianità – irrimediabilmente in crisi e prossima alla sua fine storica stando alle politiche dei governi nazionali e alla sensibilità delle masse operaie -, interviene sulla questione operaia, mostrando un cuore di pastore lungimirante e colpito dalle condizioni scandalose e inaccettabili dei lavoratori. Riandando al testo dell’Enciclica non si trova esattamente la dizione “sicurezza del lavoro” o “sul lavoro”, in ogni caso i medesimi contenuti. Gli interventi successivi della Dottrina Sociale non faranno altro che ribadire, argomentare, sviluppare le intuizioni leonine, aggiornandole dove necessario. Riportiamo per ragioni di conferma alcune espressioni tratte dalla Rerum Novarum. Papa Leone XIII insiste nella volontà di «non tenere gli operai schiavi… essendovi lavori sproporzionati alle forze, mal confacenti all’età e al sesso» (n.16). Vi sono infatti «avidi speculatori che abusano le persone come fossero cose», arrivando ad «inebetire la mente per troppa fatica» (n.33). Auspica il moltiplicarsi di “società di mutuo soccorso”, sul modello delle compiante “Corporazioni di Arti e Mestieri”, favorendo la nascita di “Assicurazioni private” e “Fondi” per fronteggiare infortuni, infermità e vecchiaia. Arcinota è la felice constatazione di come almeno in Italia l’insegnamento pontificio abbia dato la stura al cattolicesimo sociale, diffuso e capillare, consolidando processi che hanno portato alla costituzione di leghe per il lavoro e sindacati veri e propri. Seppure vi è qui è là un atteggiamento paternalistico, come quando ci si schiera a prescindere contro lo sciopero, giudicandolo un disordine grave (n.32), la Rerum Novarum rimane una profezia e una benedizione formidabile nel nome della dignità di lavoro e lavoratore, e della sua sicurezza compresa. Tra le pagine dell’Enciclica riecheggia il dialogo tra Dio e Mosè a proposito del lavoro schiavo di Israele: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto» (Es 3,7-8). Nel linguaggio biblico il “conoscere le sofferenze” esprime una conoscenza sperimentale, quindi compassione, pena, condivisione intima del dolore e recezione del “grido”, potente preghiera per le orecchie divine. Ecco la discesa in campo per una uscita da una condizione di morte ad una di vita, che comprende la gioia di un lavoro sicuro e libero. Suggestiva e ad alto impatto simbolico/educativo l’idea di installare in concomitanza con il periodo natalizio in alcune piazze italiane l’opera d’arte l’“Albero per la sicurezza” di Francesco Sbolzani (https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/arrivano_gli_alberi_per_la_sicurezza_di_anmil_nelle_citta_italiane). Su una rete elettrosaldata da cantiere sono fissati a forma di albero di Natale dei caschi da lavoro, prevalentemente di colore giallo. Vi sono delle inserzioni di caschi rossi e neri che richiamano gli addobbi natalizi, ma che indicano – allo sguardo non sbrigativo – le morti e gli infortuni sul lavoro, quasi fossero punti di spegnimento o lucine da riparare. Gli alberi attendono di illuminarsi in tutta la loro potenzialità di splendore, lasciata alla responsabilità della politica e delle coscienze.
Don Fabrizio De Toni
Assistente centrale Mlac
Articolo pubblicato sulla Newsletter del Mlac n. 01.2022
Alcune “note” tra Musica e Sinodo
“Musica”, uno dei capolavori di Henri Matisse realizzato nel 1910, è un dipinto ad olio di straordinarie dimensioni – 260×389 cm – e dall’impatto visivo altrettanto straordinario. Impossibile rimanere emotivamente e spiritualmente indifferenti!
L’opera, assieme alla più celebre “Danza”, venne commissionata da Sergej Scukin, un ricco mercante e collezionista d’arte russo, per la sua dimora in Mosca. La collocazione, seguita dallo stesso Matisse, fu prevista in un salone al secondo piano, interamente dedicato alla dimensione della passione. I suonatori del monumentale quadro “Musica” dovevano idealmente collegarsi e dialogare con “Danza” e i suoi interpreti. Ritmo e movimento, note e dinamismo coreografico, celebrano la gioia di vivere.
L’immagine faceva da sfondo suggestivo alla decina di concerti che Scukin dava ogni anno nella sua casa. La luce che entrava dai finestroni d’inverno, rinforzata dal riflesso della neve e del ghiaccio sulle strade, colpendo la tela incendiava di colore gli interni. Tutto appariva di fiammeggiante, caldo e avvolgente.
Osservando “Musica” si individua un gruppo di cinque uomini che compongono un ideale rigo musicale. Il primo rimanda alla chiave di violino, con la sua forma allungata, il secondo accovacciato aggiunge lo strumento a fiato accanto a quello a corda, suonando il doppio flauto. Gli altri tre, rannicchiati su posizioni distinte proseguono la partitura e sono ritratti con la bocca aperta, tipica di chi sta cantando. Tutto il gruppo volge lo sguardo ad un direttore d’orchestra, che rimane invisibile allo sguardo.
L’orchestrazione supera la monotonia della sola voce solista, domanda affiatamento e condivisione di una traccia, ed in ogni caso lascia libertà di interpretazione. L’invenzione pittorica e la studiata ambientazione di Matisse trova una naturale intesa con lo scenario ecclesiale, fatto anch’esso di dialogo e di movimento, di cammino e movimento, di inclusività e di fraternità.
Matisse, energicamente e istintualmente, gioca con i colori primari e per contrasti. Vuole di proposito la bidimensionalità, elimina perciò le prospettive, dando ancor maggiore risalto alla magia e alle vibrazioni delle cromie.
I musici si appoggiano sul tappeto verde della terra e della storia come fiamme di Pentecoste, intenti a narrare la bellezza di un battesimo di fuoco, il fascino del Mistero, la gratitudine dell’essere figli.
Le sagome di quattro di loro si collocano a metà sulla linea alta dell’orizzonte, tra un cielo cobalto, quasi fatato, e la terra erbosa ed elastica. Si intravvede una postura liturgica, di Alleanza, di abbraccio tra il Creatore e la creatura. In controluce la punta dell’anima intuisce la fantasia esplosiva dello Spirito nel motivo del flauto. Il cuore afferra le differenze e i carismi amati e distribuiti dallo Spirito nelle modulazioni delle voci. È proprio vero: “Del tuo Spirito Signore è piena la terra!”.
Musica di Henri Matisse, 1910, olio su tela, 260×389 cm
Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo