Spiritualità e sicurezza sul lavoro

I dati sono spietati! Contestualmente al ritmo di tre morti sul lavoro al giorno in Italia, le cronache e le indagini degli organismi deputati alla tutela e sicurezza professionale – stando ai loro data base – confermano nei mesi della pandemia un ulteriore triste incremento. Le chiamano giornalisticamente e ambiguamente “morti bianche”, in realtà sono frutto di responsabilità individuabili. La fretta di riallinearsi economicamente, insieme alla brama di accumulo e alle negligenze/superficialità evitabili portano ad abbassare gli standard di sicurezza. Perché tagliare su protezioni, dotazioni antinfortunistiche, formazione per procedure adeguate quando ciò comporta costi sociali elevati, e danni scandalosi in termini di perdita di vite umane e di esborsi economici per riparare l’offesa al diritto sacrosanto della sicurezza, che tra l’altro rientra insieme al lavoro dignitoso tra i goals dell’agenda 2030? Qual è il vantaggio? Attorno ai macabri elenchi di incidenti mortali, si aggiungono le liste di coloro che incontrano la morte per malattie professionali e correlate. Inoltre si aggiungono gli infortuni gravi, che comportano menomazioni e invalidità permanenti. Che dire sotto il profilo di una lettura credente? Si chiede anche alla spiritualità della vita laicale e lavorativa una chiave interpretativa. La Sacra Scrittura, oltre al magistero, possiede delle pagine dalle quali trarre indicazioni e riferimenti? Proviamo a reagire con alcune considerazioni, senza pretesa di sistematicità e di esaustività, con il proposito di tenere aperta una meditazione che parta direttamente dalla fede. Dietro ai numeri e alla loro freddezza è bene non scordarsi che vi sono persone, volti, biografie… lutti, ferite, drammi. Perciò la salute e la sicurezza di quanti lavorano sono argomenti che vanno trattati con le dovute competenze, alle quali unire rispetto per i tanti che hanno patito e compassione per coloro che soffrono. Continuando, interrogare la Bibbia alla voce sicurezza sul lavoro è tentativo votato a fallire. Va detto che la Sacra Scrittura non fornisce decaloghi e regole che disciplinino oppure indirizzino ogni ambito dell’agire umano. Chiunque ne abbia una qualche famigliarità sa bene che non la si può scambiare per il Manuale delle giovani Marmotte. Certamente sin dalle prime pagine di Genesi si incontra il disegno del Creatore che attribuisce il massimo di dignità e bellezza all’uomo lavoratore, senza nascondere una serie di risvolti spiacevoli, dovuti all’arroganza umana. Così l’adam, il terrestre, conosce il sudore e la fatica del coltivare la terra, e Caino alza la mano sul fratello, ingelosito dal maggiore apprezzamento dei frutti del lavoro di Abele. Dio rivela il suo disegno, e dall’impianto del suo progetto di senso e di salvezza si possono trarre in seconda battuta riferimenti etici e orientativi. Già le pagine del testo sacro contengono abbozzi di teologia, un pensiero organizzato e ordinato. Esprimendoci liberamente, si potrebbe affermare che il primo tentativo di magistero sociale lo troviamo nei vangeli. Tuttavia per arrivare a ciò che conosciamo come Dottrina Sociale sarà necessario attendere la Rerum Novarum del 1891. Leone XIII, pur nel quadro di un intento ambizioso ovvero lanciare una campagna evangelizzatrice su larga scala per ripristinare uno status di cristianità – irrimediabilmente in crisi e prossima alla sua fine storica stando alle politiche dei governi nazionali e alla sensibilità delle masse operaie -, interviene sulla questione operaia, mostrando un cuore di pastore lungimirante e colpito dalle condizioni scandalose e inaccettabili dei lavoratori. Riandando al testo dell’Enciclica non si trova esattamente la dizione “sicurezza del lavoro” o “sul lavoro”, in ogni caso i medesimi contenuti. Gli interventi successivi della Dottrina Sociale non faranno altro che ribadire, argomentare, sviluppare le intuizioni leonine, aggiornandole dove necessario. Riportiamo per ragioni di conferma alcune espressioni tratte dalla Rerum Novarum. Papa Leone XIII insiste nella volontà di «non tenere gli operai schiavi… essendovi lavori sproporzionati alle forze, mal confacenti all’età e al sesso» (n.16). Vi sono infatti «avidi speculatori che abusano le persone come fossero cose», arrivando ad «inebetire la mente per troppa fatica» (n.33). Auspica il moltiplicarsi di “società di mutuo soccorso”, sul modello delle compiante “Corporazioni di Arti e Mestieri”, favorendo la nascita di “Assicurazioni private” e “Fondi” per fronteggiare infortuni, infermità e vecchiaia. Arcinota è la felice constatazione di come almeno in Italia l’insegnamento pontificio abbia dato la stura al cattolicesimo sociale, diffuso e capillare, consolidando processi che hanno portato alla costituzione di leghe per il lavoro e sindacati veri e propri. Seppure vi è qui è là un atteggiamento paternalistico, come quando ci si schiera a prescindere contro lo sciopero, giudicandolo un disordine grave (n.32), la Rerum Novarum rimane una profezia e una benedizione formidabile nel nome della dignità di lavoro e lavoratore, e della sua sicurezza compresa. Tra le pagine dell’Enciclica riecheggia il dialogo tra Dio e Mosè a proposito del lavoro schiavo di Israele: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto» (Es 3,7-8). Nel linguaggio biblico il “conoscere le sofferenze” esprime una conoscenza sperimentale, quindi compassione, pena, condivisione intima del dolore e recezione del “grido”, potente preghiera per le orecchie divine. Ecco la discesa in campo per una uscita da una condizione di morte ad una di vita, che comprende la gioia di un lavoro sicuro e libero. Suggestiva e ad alto impatto simbolico/educativo l’idea di installare in concomitanza con il periodo natalizio in alcune piazze italiane l’opera d’arte l’“Albero per la sicurezza” di Francesco Sbolzani (https://www.redattoresociale.it/article/notiziario/arrivano_gli_alberi_per_la_sicurezza_di_anmil_nelle_citta_italiane). Su una rete elettrosaldata da cantiere sono fissati a forma di albero di Natale dei caschi da lavoro, prevalentemente di colore giallo. Vi sono delle inserzioni di caschi rossi e neri che richiamano gli addobbi natalizi, ma che indicano – allo sguardo non sbrigativo – le morti e gli infortuni sul lavoro, quasi fossero punti di spegnimento o lucine da riparare. Gli alberi attendono di illuminarsi in tutta la loro potenzialità di splendore, lasciata alla responsabilità della politica e delle coscienze.

 

Don Fabrizio De Toni

Assistente centrale Mlac

 

Articolo pubblicato sulla Newsletter del Mlac n. 01.2022

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Alcune “note” tra Musica e Sinodo

“Musica”, uno dei capolavori di Henri Matisse realizzato nel 1910, è un dipinto ad olio di straordinarie dimensioni – 260×389 cm – e dall’impatto visivo altrettanto straordinario. Impossibile rimanere emotivamente e spiritualmente indifferenti!

L’opera, assieme alla più celebre “Danza”, venne commissionata da Sergej Scukin, un ricco mercante e collezionista d’arte russo, per la sua dimora in Mosca. La collocazione, seguita dallo stesso Matisse, fu prevista in un salone al secondo piano, interamente dedicato alla dimensione della passione. I suonatori del monumentale quadro “Musica” dovevano idealmente collegarsi e dialogare con “Danza” e i suoi interpreti. Ritmo e movimento, note e dinamismo coreografico, celebrano la gioia di vivere.

L’immagine faceva da sfondo suggestivo alla decina di concerti che Scukin dava ogni anno nella sua casa. La luce che entrava dai finestroni d’inverno, rinforzata dal riflesso della neve e del ghiaccio sulle strade, colpendo la tela incendiava di colore gli interni. Tutto appariva di fiammeggiante, caldo e avvolgente.

Osservando “Musica” si individua un gruppo di cinque uomini che compongono un ideale rigo musicale. Il primo rimanda alla chiave di violino, con la sua forma allungata, il secondo accovacciato aggiunge lo strumento a fiato accanto a quello a corda, suonando il doppio flauto. Gli altri tre, rannicchiati su posizioni distinte proseguono la partitura e sono ritratti con la bocca aperta, tipica di chi sta cantando. Tutto il gruppo volge lo sguardo ad un direttore d’orchestra, che rimane invisibile allo sguardo.

L’orchestrazione supera la monotonia della sola voce solista, domanda affiatamento e condivisione di una traccia, ed in ogni caso lascia libertà di interpretazione. L’invenzione pittorica e la studiata ambientazione di Matisse trova una naturale intesa con lo scenario ecclesiale, fatto anch’esso di dialogo e di movimento, di cammino e movimento, di inclusività e di fraternità.

Matisse, energicamente e istintualmente, gioca con i colori primari e per contrasti. Vuole di proposito la bidimensionalità, elimina perciò le prospettive, dando ancor maggiore risalto alla magia e alle vibrazioni delle cromie.

I musici si appoggiano sul tappeto verde della terra e della storia come fiamme di Pentecoste, intenti a narrare la bellezza di un battesimo di fuoco, il fascino del Mistero, la gratitudine dell’essere figli.

Le sagome di quattro di loro si collocano a metà sulla linea alta dell’orizzonte, tra un cielo cobalto, quasi fatato, e la terra erbosa ed elastica. Si intravvede una postura liturgica, di Alleanza, di abbraccio tra il Creatore e la creatura. In controluce la punta dell’anima intuisce la fantasia esplosiva dello Spirito nel motivo del flauto. Il cuore afferra le differenze e i carismi amati e distribuiti dallo Spirito nelle modulazioni delle voci. È proprio vero: “Del tuo Spirito Signore è piena la terra!”.

Musica di Henri Matisse, 1910, olio su tela, 260×389 cm

Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo

 

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Dall’individuo alla comunità, la via della cura

Quale umanità sogniamo e attendiamo? Esiste un futuro che gli umani intendono costruire? I cattolici italiani come possono alimentare la fiducia e la speranza per una terra vivibile, solidale e fraterna? Sono alcune delle domande che guideranno i lavori della 49ª Settimana Sociale a Taranto, che avrà per titolo “Il pianeta che vogliamo”. Lo scenario complessivo – a pandemia ancora in corso – si presenta drammatico, polarizzato, estremamente impegnativo. Il fenomeno della globalizzazione paradossalmente, più che creare un villaggio globale, ha favorito i grossi poteri tecnocratico-finanziari. A tal proposito si rivada alla tesi di fondo dell’enciclica Laudato si’. Una concentrazione di potere e di denaro spaventosa si è rivelata una operazione disumana e cinica, infatti incrementa ingiustizie, violenze e scarti sociali, quasi dando vita ad una terza guerra mondiale in formato “spezzatino”.
La stessa lettera enciclica Fratelli tutti si apre con un capitolo impietoso, che evocativamente recita: «Le ombre di un mondo chiuso». Se da una parte la crisi climatica, il flagello del Covid-19, le immigrazioni… hanno provocato la percezione che tutto è connesso e che viaggiamo sulla stessa barca, dall’altra l’iperconnessione e lo strapotere dei mercati stanno rinfocolando vecchi nazionalismi aggressivi, individualismo becero e primitivo, insieme ad una sorta di divorzio tra l’io e il noi, tra la persona con la sua dignità e irripetibilità e la sua dimensione fraterna. L’umanità, più che casa comune e scuola di amicizia sociale, appare simile ad un aggregato di corpuscoli “gassosi”, fluttuanti e non integrati.Tuttavia, si presenta come un motivo di speranza il fatto che il vecchio mondo occidentale, i paesi emergenti, ma non esclusi quelli endemicamente svantaggiati, si stanno interrogando e concentrando sulla formula – che ci auguriamo non retorica – della transizione ecologica. Il magistero e i credenti – e tra essi l’Azione cattolica, e il Mlac in pool position – con umiltà e intelligenza possono e debbono inserirsi in questo scorcio epocale, stimolare il dibattito, offrire chiavi di lettura spirituale ed etica, condividere nel dialogo e nell’amicizia traiettorie di uscita.
L’espressione “conversione ecologica” coniata dal pensiero sociale pontificio, che fa riferimento alla teoria e al paradigma della “ecologia integrale”, si colloca su di un piano più ampio rispetto a buona parte delle elaborazioni culturali e politiche, con una strategia che rifugge da facili tatticismi e scelte di corto respiro. L’oikos, ovvero la casa globale che vi si immagina, è fatta innanzitutto dalla rete delle relazioni umane e dalla loro qualità, comprende i sistemi economici e politici, e certamente è costituita dall’ambiente che ci ospita e ci genera.A fronte di relazioni deteriorate e inquinate da egoismi, di un esercizio autoreferenziale della libertà, di una diffusa insensibilità per chi è debole, la Settimana Sociale proverà a disegnare stili, modelli e prassi relazionali alternative, di vicinanza, di giustizia… di cura. La virtù della cura domanda un andamento lento, non frettoloso; al contempo attiva lo sguardo, la vista esteriore ed interiore; è imparentata con l’empatia e la gentilezza. Trattasi di un atteggiamento virtuoso ed ecologico che va formato ed allenato senza improvvisazioni maldestre. La cura si identifica con l’attitudine di prendersi a cuore una relazione, un bisogno, un sogno. Ci viene spontaneo associarla alla presa di responsabilità per la propria interiorità, che altrimenti si trasforma in un deserto o in un groviglio spinoso. La si coltiva per facilitare le relazioni e costruire una cultura dell’incontro. Andrà vissuta per promuovere un’umanità inclusiva, dove i poveri riescano a tracciarsi percorsi di riscatto e di integrazione, e si oda finalmente il canto della festa.*Assistente ecclesiastico centrale dell’Ac per il Settore Adulti
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Memoria e speranza si danno la mano

 

 

Memoria e speranza sono due potenze che possono allearsi, darsi la mano, coalizzarsi oppure litigare, andare in cortocircuito annullandosi reciprocamente. Una infatti guarda al passato e l’altra al futuro. Non sembri questa filosofia spicciola, nel dialogo tra memoria e speranza si gioca la riuscita o meno dell’avventura umana e religiosa. Proviamo, per quello che lo spazio di un articolo ci consente, a dare una sbirciata al dinamismo della memoria biblica. Nelle pagine della Sacra Scrittura il credente emerge come colui che fa funzionare la memoria. Il pio ebreo, e con lui il popolo nella sua interezza, crede – e perciò spera – perché fa memoria dell’Esodo innanzitutto. Egli professa la sua fede facendo memoria e celebrando la sua memoria crede. Emblematica la confessione di fede a cui era tenuto ogni anno in occasione della festa nazionale della “Pentecoste”. Offrendo in forma liturgica le primizie al Signore doveva recitare una formula di fede nella quale erano contenuti i passaggi centrali della storia della salvezza: «Mio padre era un arameo errante; scese in Egitto… Gli egiziani ci maltrattarono… Il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente e braccio teso… Ci condusse in questo luogo e ci diede questa terra…» (cfr. Dt 26,1-11). Va detto, per ragioni di rigore e completezza teologica, che la “memoria” attivata nel contesto liturgico-biblico era – e lo è a maggior ragione per noi sommamente nell’eucaristia – un attualizzare, un portare nel presente il passato. In tal modo si poteva, e si può per grazia, immergersi da contemporanei nell’evento, e dichiarare di credere vedendovi le tracce dell’agire di Dio, i suoi doni… l’Alleanza, la Pasqua. Occorre starci attenti quando contestiamo, giustamente, ritualismi abitudinari, stanchi o di cattivo gusto – come si son visti in forma digitale durante la pandemia – arrivando a squalificare per intero la prassi di cura eucaristica definendola “messificio” superfluo. La memoria, il rito, la liturgia… l’evocazione e la narrazione delle “grandi opere” di Dio generano speranza, la percezione che Dio è con noi, e mai e poi mai smette di agire mosso da compassione e tenerezza (cfr. Mt 28,20. Esaminiamo per un istante la memoria più da una prospettiva psicologica e comunque sempre di fede, credente. Intendiamo parlare della memoria grata, di colui che non corre solamente dietro alle mode, ai palloncini colorati o rimane ripiegato su bisogni e desideri immediati da soddisfare. L’uomo di Dio custodisce gelosamente la sua memoria, non è un ingrato, gode nel contemplarsi come frutto di un amore eterno, che lo ha generato attraverso la mediazione di due creature umane e che lo raggiunge attraverso misteriosissime e infinite mediazioni quotidiane. Tale memoria sedimenta un sentimento di certezza, ovvero la convinzione di essere dono affidato e destinato a divenire dono per altri. La memoria grata mette di buon umore, nutre l’autostima, fa intuire la vita come una vocazione alla bellezza, ci pone di fronte al futuro con fiducia e speranza. Personalmente trovo i salmi di lode educativi, terapeutici, pieni di consolazione. Sono preghiere che spingono l’orante ad uno sguardo contemplativo e riconoscente della storia, della vita della Chiesa, dell’autobiografia: «Rendete grazie al Signore perché è buono, perché il suo amore è per sempre» (Sal 136,1). Andando agli aspetti problematici, si può idealizzare il passato, con fenomeni di nostalgia e di rimpianto che escludono uno sguardo creativo e speranzoso, anzi, bramando solo di replicare ciò che è stato, credendolo meraviglia insuperabile e gloriosa. Chi non si ricorda delle famose cipolle d’Egitto (cfr. Nm 11,4-6)? Inoltre, esistono malattie della memoria, amnesie spirituali, ricordi selettivi. Nel nostro hard disk, o se preferite nel “sistema operativo” personale, si possono installare dei virus dovuti a traumi, ferite, incidenti di percorso che distorcono la percezione della realtà e la sua valutazione. Sono pezzi di memoria che vanno sapientemente recuperati, con i quali è possibile riconciliarsi, in un cammino formativo guidato con competenza, attraversando una prima fase di accettazione, per passare alla ri-significazione – dando senso a ciò che non ne ha – sul modello della croce del Signore Gesù, approdando infine addirittura alla gratitudine, arrivando appunto alla memoria integrata e grata. La spiritualità di Paolo docet in tal senso, basti andare al suo canto di lode e di riconoscenza: «Quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). In queste settimane sta avviandosi un percorso sinodale che interesserà – per volontà di Papa Francesco – la Chiesa nella sua globalità, le diocesi di cui facciamo parte, ogni singola e minuscola realtà ecclesiale e naturalmente l’AC in tutte le sue parti e articolazioni. Non potrà mancare l’apporto della memoria ecclesiale, sociale, storica, culturale… proprio per dar fiato ai polmoni della speranza, per scuoterci – almeno in occidente – da una certa qual sonnolenza e accidia (cfr. EG n. 76-109). Rimanendo sul magistero, l’intero primo capitolo dell’Enciclica Fratelli Tutti è dedicato ad una memoria – esercitata con spirito cristiano – di ciò che sta accadendo sullo scenario mondiale. Offre un ottimo metodo di discernimento nella fede facendo leva sulla forza della memoria. Mi piace chiudere con un rimando all’icona dei due viandanti di Emmaus (cfr. Lc 2413-35), fin troppo utilizzata e abusata tanto da divenire logora. Ma non so farne a meno. I due discepoli sconsolati si lamentano del fallimento dell’opera missionaria di Gesù (memoria ingrata), successivamente vengono catechizzati (memoria integrata): «Cominciando da Mosè… spiegò loro ciò che si riferiva a lui» (cfr. Lc 24,27). Subito dopo il pasto (memoria biblica e liturgica) ritornano di gran lena sui propri passi consolati, evangelizzatori, rigenerati alla speranza e generatori di speranza (memoria ecclesiale). Che gioia!

Don Fabrizio De Toni

Articolo pubblicato sulla rivista SEGNO NEL MONDO numero 3 del 2021

https://segnoweb.azionecattolica.it/Segnonelmondo3

 

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