Vergini e dintorni

Bisogno di verginità.

Non è infrequente che il celibe o la consacrata facciano i conti con curiosità o domande da gossip nostrano. ‘Guardi che lei è un bell’uomo. Ma chi cavolo gliela messa in testa di entrare in seminario?’. ‘Senta, non mi dica che sono curioso, ma una donna interessante come lei avrà avuto chissà quante occasioni. E poi, come si fa a rinunciare alla maternità?’. Se volete sono domande un po’ banalotte, che, con risposte altrettanto arrangiate alla buona, possono essere liquidate: ‘Ok! Ma se mi sposo chi mi garantisce la riuscita?’. Il motivo che mi spinge a spendere delle considerazioni sul celibato e la verginità è il convincimento che la verginità consacrata è un dono per tutti. Il vergine grida con la sua anima e con la sua carne che Dio ha il primato, che Lui è l’Assoluto, lo Sposo, e che ogni creatura è vergine, è fatta per Dio, per vivere di fronte a Lui. Il vergine non castra se stesso, non fugge per paura dalle responsabilità della famiglia, non guarda con sufficienza e fastidio il bene della sessualità e dell’affettività di coppia. La sua è una storia di innamorato. Intende vivere e radicalizzare la vocazione centrale dell’uomo, il quale fondamentalmente è chiamato a lasciarsi amare da Dio, a ricambiarlo e ad abbracciare gli altri con la stessa tenerezza di Dio. In una stagione culturale come la nostra di smarrimento dell’identità, di vocazioni ballerine e farfalline, di progetti a tempo determinato, di inconsistenze di vario genere, il celibe offre un servizio educativo straordinario. Così il vergine per il Regno non va commiserato come il poveretto di turno intristito da una Chiesa matrigna più che madre, ma fatto oggetto di stima.

Bisogno di coerenza.

Va da sé che il prete viso pallido, il frate orso o la suora calotta polare non convincono nessuno, non sono attraenti e convincenti, e quindi falliscono nella loro pretesa di essere servizio all’umanità. Ovvero, solo autenticità e coerenza appagano, generano un celibe bello, bello anche da vedere, formano un consacrato gioioso e contagioso. Il vero celibe ce la metterà tutta per essere coerente, non per sforzo di volontà e come stringendo i denti da eroe dello spirito, ma da amante che desidera rimanere fedele alla sua vocazione, perché sa bene che nella coerenza sta la sua libertà, e perché la sua coerenza diverrà così benedizione e provocazione per gli altri. Come la verginità, così a maggior ragione la verginità vera, pura, coerente potrà essere servizio, richiamo intelligente, aiuto strategico ad un uomo occidentale che tende a trasformare l’incoerenza come la madre che gli consente di essere finalmente libero di fare quello che gli piace (bravo il nostro eterno adolescente), e di affrontare la vita con creatività e disinvoltura. Nulla è più dispendioso dell’incoerenza, del coltivare più amori in disaccordo tra di loro. Ora anche qui il celibe, che ne sa qualcosa di amore, potrà dire la sua. Se li lasciamo entrare in campo questi celibi, le probabilità di vincere la partita della vita crescono decisamente.

(Estate 2006 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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La domenica andando alla Messa

Ricordo che fin da piccolissimo alla Domenica si andava alla Messa, ed era una festa ed un incanto… oggi l’espressione sembra sia solo anticaglia buona per essere attaccata come canto dei tempi che furono nelle osterie di paese dopo la Festa Patronale o come valzer in qualche ‘baladora’ di periferia. Quando di domenica si aprivano le finestre sull’aria fresca e riempita di sole della campagna; quando vedevamo il babbo che si lava al catino strofinandosi con vigore le mani sul viso, sul petto e sulle ascelle; quando la mamma ci vestiva con le braghe corte confezionate dalla sarta per la Domenica; quando le campane con insistenza spingevano lontano il loro allegro richiamo ci sentivamo attratti, irresistibilmente attratti proprio alla Messa. La terra, la casa, le stagioni, il paese, gli amici profumavano della presenza di Dio. Lui era come una mano larga e affidabile che tutto sosteneva. Ed eravamo convinti che la Chiesa fosse la sua e la nostra casa per eccellenza dove era bello accarezzarlo e lasciarci accarezzare. La Messa era una gioia: Dio stava con i suoi figli per confidarsi con loro, per incoraggiarli, per nutrirli, per riconciliarli come famiglia, per consolarli, per educarli. E per strada non si incontravano ‘amatori’ distraenti perché eravamo già in compagnia di Dio, a braccetto con Lui. E per noi questo era il meglio.

Io credo che in queste nostalgie riscontrabili in parecchi ex giovanotti dai 40 anni in su rivelino una serie di cose interessanti.

Il centro di gravità.

Sono convinto che l’uomo abbisogna di ordine, non nel senso della pura disciplina e di chiare regole, ma di un centro caldo intorno al quale fissare tutto il resto. Pena altrimenti il vivere dis-ordinati, senza ordine, smarriti, facenti parte della triste generazione del Boh. La Messa ha la pretesa di rimettere in ordine, di dare senso alla storia.

Un centro di gravità permanente.

Dal momento che noi siamo animali simbolici e ritmici è indispensabile il ritrovarsi con fedeltà attorno a questo centro. Non averlo chiaro sarebbe da ingenui. Solo l’assiduità, il ritmo garantisce pian piano la crescita e la stabilizzazione in noi di gusti, di sentimenti, di atteggiamenti, di pensieri che sono poi alla fine quelli stessi di Dio. Chi ci sta avverte che la faccenda funziona ed è godibile. Si spiega così il fatto di certe vecchine pimpanti e per nulla ammuffite, giovanissime dentro, che affermano con candore che senza la Messa non saprebbero stare.

… che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose.

La Messa, recitano austere le sacre pagine della teologia di sempre, è la Memoria Christi, la Memoria della Pasqua. Mettendoci con fiducia davanti al Tu di Dio e a ciò che Lui ha fatto, noi comprendiamo il nostro Io. Davanti al Creatore la creatura prende coscienza della sua identità di figlio, di voluto e amato da sempre e per sempre. Celebrare con autenticità e con gusto significa maturare nell’identità, irrobustirla, nutrirla. Ma perché dobbiamo rischiare troppo spesso di finire dallo psicologo per disturbi legati all’identità? Nella Messa, nel gesto dello spezzare il pane ritroviamo chi siamo chiamati ad essere: creature ad immagine e somiglianza dell’Altissimo, fatte per spezzarsi, per donarsi, per amare. È sempre in fondo una faccenda d’identità. Nulla di automatico e di scontato ben s’intende. Anche il sottoscritto, celebratore di un numero già considerevole di Messe, scivolò a  30 anni nel caos della depressione, allora avevo 5/6 anni di Ordinazione sacerdotale, e fu ‘costretto’ a chieder aiuto, guarda un po’ ad uno psicologo. Ma una delle pochissime consolazioni rimase appunto l’Eucaristia, quotidiana. Comprendevo che lì, esaurite tutte le altre certezze di un tempo, Dio mi restituiva la mia identità, che anch’io ero suo figlio, che sarei stato capace un giorno non lontanissimo di amare con gioia, di spezzarmi in positivo. Se era così voleva dire che non ero da disprezzare, che anch’io ero amabile, oggetto del suo amore. Se l’idea su noi stessi diviene deprimente allora iniziano i guai.

La Messa se presa in questo modo è la porzione di manna settimanale per affrontare con energia il cammino; è orientamento; è intuizione del mistero del vivere e della sua bellezza; è fremere contenti sotto la mano benedicente di Dio; è riappropriasi con stupore di sé stessi e del proprio destino; è…

Che pena quando lo sguardo corre sui banchi domenicali deserti, inesorabilmente vuoti, ad attendere gente distratta, tratta altrove. Non è una questione di soddisfazioni pastorali: della serie che la Chiesa piena rallegra il cuore dei pastori. Sarebbe abbastanza avvilente. Ma è in ballo una opportunità straordinaria per la riuscita della vita. Ecco perché Dio inventa la Messa: perché ama la vita. A buon intenditor non servirebbero altre parole.

(Natale 2005 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Relazioni virtuose

Abbiamo voluto questo inserto un tantino ‘sostenuto’ né per il prurito di differenziarci ad ogni costo né quasi infastiditi per la sola e solita ‘cronaca’ spicciola e poco colta. Crediamo che sia importante, in sintonia con una sensibilità accentuata (talvolta ipersensibilità esagerata) alla qualità delle relazioni, ed in sintonia con i progetti diocesani di questi anni che puntano tuttissimo sulle relazioni, investire delle energie su quest’area, riflettere, cercare di capirne qualcosa. Mi sia permesso di stigmatizzare alcuni tipi di relazione disturbata, di cui spesso ci lamentiamo, che ci infastidiscono e che non vanno solo imputati alla ignoranza o cattiveria dei soliti ‘altri’.

Si può evidenziare una prima tipologia di relazione mal funzionante: la relazione scarica. È una sorta di virus relazionale che sta circolando nella rete dei rapporti odierni, e che affligge o emerge con maggior intensità negli ambienti pubblici, Chiesa compresa. I tipi che ne sono contagiati soffrono di anemia affettiva, di desideri appiattiti. Sono i classici indifferenti. Se il mondo crolla ne prendono saggiamente atto e si tirano dall’altra parte. Ed è la morte della relazione. Tutt’al più si risponde al protocollo. Ciò che conta è non innervosirsi troppo e non lasciarsi innervosire. Burocraticamente tranquilli e ‘spenti’. Una delle nostre ultime perpetue doc, una certa Tonina di Portogruaro, definiva così i portatori ammalati del  virus, giocando con la parola energia: ‘Senza nevralgia’. Di attenzione, affetto, tenerezza nemmeno l’ombra.

Dal lato opposto ci sono coloro che dal punto di vista emotivo sono voraci, istintuali, insaziabili. Appaiono a prima vista entusiasti ed interessati all’altro, il quale tuttavia ben presto si accorge con delusione di essere trattato alla stregua di un oggetto. Una sorta di relazione consumistica, veloce, che brucia vittima e artefice.

Una parente stretta della relazione consumistica è la relazione ambiziosa. Può presentarsi sotto le mentite spoglie della generosità, dello spendersi a tempo pieno per il bene, del mettere a frutto i talenti ricevuti. L’ambizioso, spessissimo senza saperlo o con solo un vago sesto senso della cosa, cerca se stesso, mette come un bambino il suo io al centro e cerca disperatamente attraverso le sue performance consenso, plauso e applauso. Va mendicando una stima che non riesce a generare dentro di sé e che allora si illude di attingere fuori.

Per contrasto possiamo far spazio alla relazione virtuosa. Virtuosa in senso tomistico (San Tommaso), intesa non come relazione occasionale, ma permanente ed in formazione permanente, incessantemente desiderata e costruita, che ha a che fare con la propria identità. Virtuosa perché liberamente e saggiamente mette il tu al centro, compreso il Tu di Dio, che non divora le nostre relazioni umane, ma che conferisce loro luce e ordine. Specularmente alle altre relazioni false e drogate, la relazione virtuosa risulterà appassionante, desiderabile perché qui sta la nostra verità e riuscita; umile e discreta perché l’altro è l’oggetto dell’amore e non l’oggetto del possesso e del consumo; semplice e gioiosa perché  ‘c’è più gioia nel dare che nel ricevere’ (At 20,35).

(Estate 2007 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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I quattro cantoni

In Seminario un tempo sotto i grigi portici andava forte il gioco dei 4 cantoni. Era richiestissimo e non costava un soldo. Bastavano appunto quattro cantoni. Quindi quattro di noi occupavano i quattro cantoni e un ‘pandòlo’ stava nel mezzo cercando di accaparrarsi un ‘cantone’ quando i quattro alleati dovevano scambiarsi di posto. Chi rimaneva senza ‘canton’ era il ‘pandòlo’ di turno. Oggi, ad una osservazione non superficiale, non sfugge una certa perdita di ruoli, di identità. Si va ad occupare il ‘canton’ dell’altro perdendo di vista il proprio.

Lo schema può risultare sgangherato… ma mi sembra possa funzionare per descrivere la perdita di identità, la confusione dei ruoli e dei progetti di vita, i profili un tantino scolorati dei figli e degli adulti. Compresi quelli dei preti! Evidentemente! Non può sfuggire come nei nostri vivai educativi ci sia l’affollamento di bimbi precoci.

Le mamme e soprattutto le nonne vanno pazze per il loro pargolo  sveglissimo. Ecco il punto: talmente sveglio da atteggiarsi da adulto, sicuro di sé, autonomo ed intraprendente. Lo stesso pargolo lo si ritrova poi diciottenne imbranato, mammone ad oltranza, incapace di uscire dal nido affettivo. Strano questo ribaltamento di ruoli.

I padri poi più che occupare il loro posto, assolutamente non per cattiveria, ma per impostazione generale del modus vivendi, rischiano di disertarlo anche fisicamente. Talvolta diventano al loro rientro in casa autoritari ed insopportabili, proprio per recuperare il tempo perso, o si trasformano in mammi, amici e fratelli dei loro figli, ricoprendo atteggiamenti materni che non si addicono al padre, finendo per non dare sicurezza ed orientamenti. Le avete viste poi certe mamme trasformarsi per reazione in adulti aspri e troppo determinati, non dando al figlio l’accoglienza e il calore che generano fiducia e stima di sé?

Qualcuno lo ha chiamato provocatoriamente ed  umoristicamente un ‘Ballo in maschera’… deprimente e divertente al tempo stesso. Chiaro: è una linea critica di interpretazione delle relazioni umane, soprattutto famigliari, da integrare con altre valutazioni e di altro segno. Nessuna volontà di incupire… ma solo di pro-vocare, di richiamare all’assunzione della propria identità vocazionale.

Il Natale và in questa direzione. Dio occupa il suo posto. E avanti alla sua identità emerge la nostra di identità, il nostro essere figli e figli amati. Sia questo un Natale formativo. Mettersi davanti al Tu di Dio non è una operazione puerile, da presepio senz’anima. Questo Tu celebra il nostro Io, lo fa uscire dalla confusione, lo definisce e lo chiarisce. Lui nasce… e sarà come rinascere.

(Natale 2004 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Gioia sostenibile?

In questa stagione dalle facili depressioni, e dagli umori tristi più che giustificati e comprensibili, ho letto da poco un paio di saggi dove si ragiona circa la “gioia possibile” oppure detta “felicità sostenibile”. Sono espressioni che condivido nella sostanza, che richiamano realismo e prudenza e che peraltro non mi convincono del tutto lasciandomi una impressione di una certa rassegnazione in partenza.

È evidente che il cuore non potrà mai ottenere sulla faccia di questa terra una gioia compiuta. Lo afferma prima e più autorevolmente di noi San Agostino quando scrive: “Tu ci hai fatti per Te Signore e il nostro cuore non avrà pace finché non riposa in Te”. Interessante questa conclusione che esce da un uomo bruciato dal desiderio di felicità. Tuttavia credo sia possibile osare di più, anche nel linguaggio parlando di felicità tout court senza paura di essere fraintesi, solo per amore della felicità. Io partirei quindi da una legge psicologica e spirituale insieme, legge che potrà sembrare strampalata o almeno singolare che suona così: “La gioia non va mai cercata direttamente”. È una tesi che a ben pensare sul fronte della esperienza non è difficile sostenere.

La gioia cercata intenzionalmente e direttamente si rivelerà inesorabilmente effimera, fugace. L’ansia che si tentava di cacciare si moltiplicherà. Si presenterà una fame ancora più assatanata di stima, di considerazione, di consolazione, di… felicità appunto. Infatti quando ci gettiamo sulle cose per possederle o andiamo a caccia di emozioni per gratificare all’istante i nostri bisogni, questi a breve scadenza si ripropongono più esigenti di prima, più intensi, più affamati, più insaziabili.

La felicità che si ottiene agendo d’istinto (va dove ti porta il cuore) sarà felicità nervosa e spesso insulsa che corrisponde allo sballo del Sabato notte e allo stordimento della Domenica mattina. Gioia allora frenetica e illusoria. Misteriosa allora questa gioia sempre più confusa con l’eccitamento. Più la si cerca direttamente e più scappa. Sentite, tanto per confermare, come si esprime balordamente, ma genialmente a tempo stesso il Vasco Rossi in una delle sue ultime canzoni: “Gioca con me. Fare l’amore è molto semplice. Non c’è nessun perché. Prendilo com’è”. Avvicinandosi alla verità centrale dell’uomo, che rimane misteriosa e non afferrabile in senso stretto, mi vien qui da proporre due altre tesi per aprire la strada alla “felicità sostenibile”, o meglio alla gioia come sale della vita. La prima suona in questi termini: “La gioia è figlia del LASCIARSI FARE più che del fare”. È essenziale che impariamo a lasciarci raggiungere dal bene, ad avere la libertà di lasciarci amare, di godere del bene ricevuto. Il credente in questo senso è davvero fortunato e se non gli accade di sentirsi fortunato allora è grave il suo stato di salute. A conferma di questa tesi, ricordo il rientro dei discepoli dalla loro esperienza missionaria.

Raccontano a Gesù le loro performances, i loro successi missionari-pastorali. Gesù li ascolta e poi li stressa rispondendo: ‘Non rallegratevi (ecco qui la gioia del credente) perché i demoni si sottomettono a voi, rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli’ (cfr Lc 10,20). Il gaudio del cuore, il godimento dell’anima sta nel sentirsi amati. Visto che la gioia non va cercata direttamente, la seconda tesi recita così: “La gioia è figlia o conseguenza di un fare buono, virtuoso, giusto”. Non c’è nulla di più appagante, godibile, rilassante che obbedire al proprio progetto vocazionale. In altre parole la coerenza produce gioia. Felicità vera, festa del cuore, voglia di vivere.

(09.08.2009 dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Arriva il quasi cinquantenne

L’inizio dell’articoletto potrà sorprendere. Il fatto è che, ad iniziare dai colleghi, mi chiamano ancora ‘prete giovane’, credo per rarefazione anagrafica dei presbiteri e per il loro progressivo invecchiamento. In realtà don Fabrizio tanto giovane non è, sta approcciandosi ai suoi 50. È stato ordinato nel ’87 per l’imposizione delle mani di Mons. Freschi spendendo i suoi 23 anni di ordinazione tra Seminario, come Animatore dei piccoli, San Giorgio di Pordenone, B.M.V.R. di Portogruaro e quindi Valmeduna. Così salutavo un paio di mesi fa le mie precedenti comunità, saluto di addio che ora può mutarsi in saluto di presentazione: ”In Febbraio il Vescovo mi ha avvicinato dandomi una pacchetta sulla spalla e dicendo i tenermi pronto. Era da un paio d’anni che sondava in modo informale la mia disponibilità: ‘Se sei stanco dimmelo che ti cambio domani mattina’. Anch’io rispondevo in modo scherzoso: ‘Se mi dimenticate mi fate un regalo’. Il fatto è che Meduno (da 11 anni) e Tramonti (da 8 anni) erano e sono casa mia in senso pastorale, lavorativo, amicale, culturale. Ora è tempo di fare le valigie come titolava un giornale locale. È tempo di obbedire, di ob-audire, di ascoltare in modo serio e responsabile, di trasferirmi a Prata mio nuovo gregge. Nel 91’ il Vescovo Sennen mi implorava di partire per il Kenia come missionario. Allora disobbedii spaventato, anzi terrorizzato alla prospettiva. Un’altra chiamata allora avrei sicuramente considerato con ‘orrore’: la montagna, che per me significava castigo, mancanza di stima dei superiori, giudizio di incapacità. Immediatamente dopo la disobbedienza missionaria caddi in una depressione allucinante, di cui non ho fatto mai mistero. Molte cose mutarono nel mio intimo tanto da salire più tardi in montagna con una gioia e un piacere che non mi hanno mai abbandonato. È proprio quell’inferno depressivo che ho sofferto, che poi si è trasformato in storia di salvezza, a consentirmi oggi di essere sufficientemente libero e sereno di… andare, di togliermi di mezzo, di morire, di ripartire”. Credo sia utile chiarire subito che il don in arrivo non possiede nulla di straordinario, è solo un poveretto che si sente amato e chiamato ad essere fratello, padre  e madre di altri. Sguarnito come sono, chiedo per grazia di essere reso destinatario del dono dell’intelligenza spirituale  e pastorale. Prendo la parola intelligenza nel suo significato etimologico, da intus-legere, vale a dire leggere dentro, non essere superficiali, ma accorti e sensibili per comprendere la bellezza e la verità del mistero della vita. Tale intelligenza guarda innanzitutto ciò che sta dietro le spalle, spinge lo sguardo verso il passato, cerca di fare memoria della storia che l’ha preceduta cogliendo tutti i frammenti di bene che contiene. So che Prata vanta una sequenza di sacerdoti geniali, colti e devoti; possiede antiche tradizioni e una ricchezza non comune di realtà e di iniziative ecclesiali. L’intelligenza spirituale di cui parliamo richiede di essere esercitata anche sul presente e sul futuro provando ad intuire e ad afferrare le provocazioni e le indicazioni di Dio, usualmente discrete e normali. È sotto gli occhi di tutti il bisogno enorme di creare comunione ad intra e ad extra, di imparare a dialogare e a tessere relazioni fraterne. Pur essendo un patito di innovazioni, amante del cambiamento e delle nuove metodologie e tecnologie, non credo nel modo più assoluto che la salvezza della nostra Chiesa arrivi da qualche geniale trovata. Sono del parere che, per la tenuta, la credibilità e la freschezza della struttura Chiesa, sia essenziale porre come pietra fondativa la relazione di fede. È dalla qualità e dalla bontà della nostra relazione con Dio che discende la qualità e la bontà delle nostre relazioni. La fede, evidentemente adulta, convinta e appassionata, deve essere l’ispirazione di ogni relazione e progetto che allora avranno il profumo della gratuità e della condivisione. Detto questo, voglio sperare di avervi indirettamente rivelato le mie intenzioni e la mia volontà di muovermi in modo ‘intelligente’ iniziando dal conoscervi e dall’amarvi. Vi saluto ringraziando i tantissimi che si sono attivati per la mia accoglienza, partendo dal sorriso benevolo di Mons. Danilo.

A presto!

Vostro don Fabrizio   06.10.2010

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Disgregato e…disgregante!

Titolo curioso… o forse solo rompicapo inutile e che non merita investimento di energie… per me è una tesi interessantissima e verissima. Non intendo fare accademismi… senza averne i titoli, ma occuparmi della vita nella sua concretezza. Il titolo dice una cosa semplice pur nella sua complicazione espressiva: ciò che fa parte di noi e che non viene integrato (e quindi disgregato) nella nostra identità e nel nostro progetto vocazionale va per forza di cose per ‘gli affari suoi’ e, dal momento che comunque è un pezzo di noi, disturba, rovina, risulta come una sorta di palla al piede, addirittura può funzionare da elemento pericoloso, in ogni caso diviene disgregante. È una legge umana direi inevitabile. Ora mi piacerebbe operare un doppio sguardo: verso il passato e verso il futuro e cercare di dimostrare come tale tesi sia assolutamente attendibile. E cioè: una memoria, un passato non  integrato, con il quale non ci siamo riconciliati tende a disgregare, a far sentire il suo condizionamento, a toglierci libertà emotiva e intellettiva. Ancora, un presente e un futuro prossimo che contengono degli elementi che vengono percepiti come ostili, preoccupanti o quanto meno sgradevoli, che stentiamo a gestire in modo intelligente agiscono su di noi portando confusione, ansia, togliendoci libertà, destabilizzandoci, disgregandoci appunto. Fatta questa premessa, possiamo partire guardando il passato, la nostra storia personale o comunitaria. Pochi lo sanno, ma in tutti è presente e viva, esiste una memoria affettiva. L’essere umano registra le sue emozioni, soprattutto quelle a forte intensità e non le dimentica. Si perde la memoria dell’accadimento, dell’esperienza concreta, ma rimane in noi, come traccia indelebile, l’emozione generata da quella precisa esperienza. L’emozione archiviata poi esce, talvolta in modo dirompente, davanti a un qualsiasi motivo che anche solo per collegamento simbolico e vago richiama la prima esperienza. C’è in noi quasi una scatola nera contenente le emozioni primitive e che determina gusti, simpatie e antipatie, paure, desideri… Qualche autore sostiene che la memoria affettiva sia allora la madre del nostro presente e del nostro futuro. Non di rado capita che questa madre sia più matrigna che benigna. Facciamo un paio di esempi di segno opposto. Uno positivo. Un bambino nell’età della Scuola d’Infanzia o nei primi anni del Catechismo (pensiamo solo alla Messa di Prima Comunione) che sedimenta dentro di sé davanti alle immagini e alle esperienze del sacro un sentimento di stupore, di gratitudine, di fascinazione, avvertirà nella stagione dell’adolescenza o della maturità, con maggiore facilità, la percezione dell’incanto per ciò che è divino, nelle sue crisi sarà portato a ritenere che probabilmente di Dio ci si può fidare, nella sua ricerca di senso proverà attrazione per ciò che il Vangelo ritiene buono, vero e bello. L’emozione integrata, coerente con un progetto di vita aperto alla fede, si rivelerà integrante, consentirà di leggere e accogliere le benedizioni del Signore disseminate lungo il cammino, abiliterà a mettere in ordine la propria storia intorno ad una offerta educativa credente per la quale ci si può fidare, ad apprezzare la propria vera identità di creatura ad immagine somiglianza di Dio, da sempre amata da Lui e chiamata a fare come Lui. Un adulto che non abbia una memoria religiosa di questo tipo o non l’abbia affatto, sarà un adulto orfano, sicuramente più povero… senza memoria affettiva, senza ‘madre’, disintegrato e smarrito. Andiamo ora ad una memoria affettiva di segno  negativo. Classico è il profilo che colui che ha intrattenuto con il padre una pessima relazione, portandosi dentro rabbia, rancore, fastidio, umiliazione, ribellione. Il figlio incompreso e mal-trattato davanti a tutto ciò che suona come autorità e imposizione sarà spinto ad agire in termini aggressivi, con la conclusione che talvolta penserà di essere un amante della giustizia, un uomo dall’alto senso della libertà, che non tollera forzature e arroganze, una specie di profeta che reagisce alla protervia altrui… senza avvedersi che sta lottando contro suo padre, il padre dell’infanzia, rispondendo alla tracotanza, o a ciò che lui giudica come tale, con altrettanta tracotanza, se non peggiore della prima: poveretto! Il tutto senza cattiveria (si capisce), perché gli sfugge la motivazione profonda, la radice del suo ‘santo’ disagio. Vedete come la memoria affettiva plasmi il presente, lo generi come una madre genera il figlio. Si comprende allora come sia utile e furbo imparare ad integrare la memoria affettiva, perché sia reale energia che aiuti e non disgreghi la nostra vera identità. Per guarire la memoria affettiva, sempre in parte ammalata perché le botte che prende in genere non vengono curate per tempo, si deve mettere le mani su di un materiale che non richiede, per essere individuato, l’accompagnamento di un esperto. Sto parlando della memoria storica: questa sì è chiara nella mente. È la memoria dei fatti non dimenticati, degli incontri, del percorso famigliare, amicale, lavorativo… ecclesiale. Una memoria affettiva poco sana, non guarita va a braccetto, quasi fosse la sorella preferita, con una memoria storica poco piacevole, ingrata, più o meno sofferente… disgregata e quindi disgregante. Gli scontenti, i brontoloni, i pessimisti, gli acidi sono, se guardati da vicino, perennemente in lotta con il loro passato remoto e recente. Vita infelice la loro, proprio perché il passato è sentito e ricordato come triste. Se non proprio infelice, almeno inquieta, velata di nervosismo e di pessimismo, poco gioiosa. Ciò che è stato viene visto come un campo di battaglia o come una sporta pesante da portare: malattie e prove, insuccessi, genitori non all’altezza, preti non all’altezza, amici insinceri, figli inconcludenti e torvi, e come se non bastasse, un Dio muto, impotente. Un passato degno solo di essere dimenticato, rimosso o di cui ricordare solo un parte… una storia non ben integrata e, come si può capire, disintegrante se non altro di una certa legittima e possibile serenità (che immancabilmente scappa). L’operazione di fondo da fare e rifare quotidianamente è la riconciliazione (l’integrazione) della memoria storica. Tutto il nostro percorso va accettato, guardato, preso così com’è. Ogni gesto e ogni silenzio, ogni gioia e ogni patimento, ogni volto e ogni immagine, ogni successo e ogni peccato. Accettare, va da sé, non significa approvare con olimpionica ingenuità, ma consentire che ciò che è stato sia. Accettare è permettere alla realtà storica di essere quella che è, senza eccessive vergogne e disperazioni. L’operazione suddetta da sola non è sufficiente. E’ basilare, ma fermarsi qui sarebbe roba per uomini psichici che non si aprono ad un reale cambiamento, ad una liberante conversione-integrazione. L’altro passo, assolutamente essenziale, è la gratitudine. Nessuno di noi è così sfortunato da non aver motivi per cui ringraziare. Chi con pazienza e con stupore impara a recuperare il cordoncino rosso delle benedizioni che gli uomini e Dio gli hanno accordato e che attraversa tutte le tappe della vita e che si fa ancor più robusto e riverberante dentro alle sue zone buie, s’accorgerà di essere creatura desiderata e  amata, da sempre. Intuirà che non è uno sgorbio frutto del caso, ma un figlio che può  avanzare con speranza, un dono che andrà condiviso con gli altri. La memoria affettiva ferita inizia così a guarire, le emozioni primitive di svilimento lasceranno spazio a sentimenti positivi, si muteranno in emozioni di fiducia. Eccola la memoria ’vera’, affettiva e storica insieme, grata e fiduciosa, la memoria-madre feconda di un presente e di un avvenire che si possono affrontare con entusiasmo, con generosità perché certi di essere stati ben voluti, perché sicuri di essere stati amati, sicuri di valere, convinti di  essere capaci di amare, desiderosi di ricambiare. Interessanti questi ottimisti non stupidini, che non si sforzano di presentarsi con un sorriso ebete, ma che sorridono alla vita perché hanno appreso ad integrare la loro vita. Riguardo al futuro il meccanismo è il medesimo: tutto ciò che sta di fronte come possibilità e che non sappiamo digerire e gestire tende ad attaccare la nostra identità, a metterci sulla difensiva, a disgregarci. Mi sia consentito di focalizzare l’attenzione sul futuro pastorale. Nei prossimi 5 anni con ogni probabilità lo sforzo della pastorale diocesana mirerà a riconfigurare il tessuto pastorale in unità-zone pastorali, dove le singole identità parrocchiali non si dissolvono in un polverone caotico, ma divengono alleate e sorelle. Il progetto è indotto indubbiamente da un rapido invecchiamento del clero e dai nuovi ingressi in Seminario ridotti al lumicino, ma nello stesso tempo dalla volontà di far fronte alla tentazione di una vita presbiterale autoreferenziale (della serie la mia Canonica, la mia Parrocchia, il mio gruppo, le mie  irrinunciabili e geniali idee…) e di una vita pastorale altrettanto autoreferenziale (il mio campanile, il mio prete, le mie suore, il mio Grest, ecc.). Dentro a questo panorama è evidente il limite: mancanza di preti, mancanza di suore, mancanza se non assenza di laici preparati, mancanza di ricette funzionanti… aumento di ‘pecore smarrite’ o che semplicemente preferiscono brucare altri foraggi e frequentare altre valli, svuotamento domenicale, inappetenza di fede… Se il limite non viene integrato e vissuto come una straordinaria opportunità, allora immediate sono le reazioni disgreganti o perlomeno insufficienti. E allora si passa da un approccio tecnico, di chi pensa di abbassare l’ansia esclusivamente moltiplicando piani-progetti-verifiche. Si dice che quando si sa dove  andare, con competenza, allora ci si sente meno inadeguati e pian piano si recupera (o si finge di recuperare) gusto e convinzione. In questo sforzo quasi puramente di ingegneria pastorale dove sta l’anima del Pastore-Amante del suo gregge? Non ne viene fuori piuttosto un profilo da ‘operatore-meccanico pastorale’, da controllore della situazione che rischia di non controllare un bel nulla e di trovarsi più ansioso di prima? E si arriva ad un approccio aggressivo e disfattista di chi profetizza solo implosioni e collassi pastorali, di chi ritiene praticamente impossibile metter due preti sotto lo stesso tetto perché cresciuti con il mito del Parroco-Papa-e-Re e non tiene conto di non essere dispensato dal convertirsi dal suo individualismo, di chi si abbarbica penosamente e pateticamente al suo campanile (per salvarlo, si dice, senza accorgersi di isolarlo), di chi presume di non aver nulla da imparare dagli altri, di chi non ha mai letto il Vangelo della condivisione.Quando il limite non viene accettato con pacatezza, ma avvertito come minaccia, quando non viene metabolizzato ed integrato queste sono alcune delle logiche e poco entusiasmanti conclusioni. Lo stesso limite può essere valorizzato e gestito da credenti. Perché non interpretarlo come una provvidenziale Scuola Formativa, come un vuoto dove si nascondono le pro-vocazioni, gli appelli vocazionali di Dio? La povertà del futuro ci può educare all’umiltà, all’abbandonarci alla misericordia divina più che mai al lavoro quando si tratta di poveri, all’uscita dal nostro orticello, alla condivisione delle nostre risorse, all’apprezzamento della ricchezza altrui, alla responsabilità laicale (la Chiesa non è una bottega che si frequenta quando se ne decide la necessità, e che va aperta e tenuta in ordine senza prodotti scaduti e da preti aggiornati), al lavoro di squadra, al pensare insieme da cristiani e non da sciocchi rivali, all’andare incontro all’altro non perché mi è simpatico, ma perché me lo chiede il Vangelo. ‘Quando sono debole, è allora che sono forte’: così si confidava nella preghiera Paolo di Tarso che si era lasciato formare dalla prova e dalla necessità. Integrare allora per non disperdere, perché ogni frammento e soprattutto quello meno appariscente contiene energia, possiede a sua volta un frammento di grazia, la presenza dell’Eterno. Integrare perché, come Dio che non è venuto per condannare e brontolare, nulla vada perduto, tutto vada vissuto e goduto. Integrare per costruire, piantare, irrigare, vitalizzare, anche dove altri non vedono nulla di buono… e infine raccogliere, anzi questo è già raccogliere il frutto formato, il frutto  della integrazione-formazione permanente! 24.07.2005

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Mamma mia che Babele!

In questo scorcio di storia conflittuale e tesa, ma pur sempre storia benedetta dalla Grazia, mi piace andare con  la memoria all’immagine della Pentecoste. E’ un affresco pieno di speranza. A Pentecoste lo Spirito, la Ruah Jahvè, il Respiro forte di Dio fa irruzione nella stanza dove erano raccolti i discepoli del Risorto. Animati dalla Sua presenza iniziano a parlare lingue differenti: le lingue dell’area mediterranea e dell’area mesopotamica. Le lingue del villaggio globale di allora. E comunicando in lingue diverse si capiscono e vengono capiti. Nasce così embrionalmente un’Antibabele, una umanità riconciliata, una famiglia dove ci si intende. Questo è il sogno di Dio. Questo è il suo progetto sulla storia. Questo è ciò che accadrà nella sua interezza e intensità nell’eternità. Il desiderio di Dio si chiama: comunione delle diversità. Comunione quindi, non confusione, lacerazione, dispersione, divisione. Quanto sciocchi allora certi individualismi personali e financo di gruppo (la ‘mia’ famiglia: delle altre non mi interessa; il ‘mio’ partito, la mia Congregazione, la ‘mia’ Parrocchia, la ‘mia’ cultura…). Un’affermazione iper-accentuata e fissata del proprio ‘Io’ che non sente più necessario e bello il dialogare con il ‘Tu’ per fare comunione con lui. Nascono qui le varie solitudini, le conflittualità, i nazionalismi esasperati e radicaloidi… nasce qui Babele. Tutto ciò che si muove, dentro e fuori la Chiesa, nella logica della cooperazione, dell’ascolto, della fraternità  e della comunione ha a che fare con il Regno di Dio, è esperienza umana da benedire e già benedetta da Lui, il Dio amante della comunione, il Dio Trinitario che è in sé comunione delle differenze. Comunione, dicevamo, ma anche diversità.

Il Creatore stesso crea e vuole la diversità, la differenza. L’omologazione, l’appiattimento, l’uniformità lo angoscerebbe. Interessante l’analisi di chi scorge nella nostra cultura occidentale i segni di una ‘omosessualità latente’. Non nel senso che siamo tendenzialmente omosessuali e lesbiche (da un punto di vista sessuale), ma dall’atteggiamento omosessuale, cioè di chi mal tollera la differenza (l’omosessuale infatti è innamorato di chi è uguale a sé). Tanto nervosismo e intolleranza ha la sua radice anche qui: vorremo gli altri uguali a noi. Ci disturbano infatti quelli che ‘sentono’ differentemente da noi, chi non si organizza come noi, chi non ha gusti, tradizioni, cultura, identità religiosa, lingua come noi. Ma ve la immaginate una terra fatta di cloni e di fotocopie. Buffo, poi, osservare un sacco di giovani e di meno giovani che si illudono di essere originali e di distinguersi per il solo fatto di scoprire l’ombelico o di frequentare i pubs più gettonati, senz’accorgersi che così fan tutti. Un sogno, allora da condividere quello di Pentecoste: la Comunione delle differenze. Dove la differenza non si arrocca, non si avvita su di sé, ma impara ad apprezzare la differenza altrui e crea con essa, e grazie ad essa, comunione e famiglia. Non è forse questa la domanda attuale della nostra terra sempre più globalizzata? Don Fabrizio 04.05.2004

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Il Figlio

Mi piace partire dall’immagine del figlio, che in fondo è la nostra radice, la nostra identità, per interpretare la cultura nella quale ci muoviamo. In passato ho riflettuto a lungo sulla ‘morte del Padre’ decretata dall’ultimo scorcio di fine secolo. Quindi morte delle istituzioni, delle tradizioni, dell’autorità… della memoria, nel nome di un futuro svincolato da rigidità e legami, tutto pieno di libertà. I figli che hanno messo a morte il padre si ritrovano certamente liberi, ma altrettanto certamente disorientati, smarriti, ma forse non ancora consapevoli appieno del loro smarrimento perché ancora ebbri di una libertà ed emancipazione appena conquistata. Figli talmente smarriti e confusi da aver dimenticato la loro bellezza e dignità di figli. Ecco la mia tesi, o meglio: tesi di  alcuni analisti di area cattolica che condivido: i figli di oggi hanno dimenticato il Padre al punto da dimenticare di essere figli. Ahimè, grave perdita questa. Il figlio per natura sua è uno che viene generato: dai genitori, dagli educatori, dalle esperienze, dalla scuola, dagli amici, dal tempo, dalla terra… Per sé il figlio è tale perché vive una sana dipendenza da tutta una storia che gli è madre, che lo nutre, lo alleva, gli permette di essere quello che è. Il figlio se si mette ad osservare le cose dalla finestra della sua identità impara da solo a ringraziare, a stupirsi, ad esser contento per una vita che è generosa con lui, straordinariamente più generosa di quanto lui non lo sia con lei. Colui che guarda con occhio contemplativo intuisce la sua dignità di figlio, e la intuisce come realtà buona, anzi: molto buona. Il credente poi rafforza ulteriormente questa verità. Il credente contesta la presunzione di chi si crede padrone ed artefice assoluto della sua vita, della serie: ‘Io non devo niente a nessuno. Se ho qualcosa, me lo sono meritato’. Una certa fierezza per questo tipo di falsa libertà, anche se all’inizio può dare entusiasmo ed euforia, alla lunga lascia stranamente vuoti e freddi, non appaga. L’uomo credente avverte e afferra che tutto trova ed ha la sua sorgente in Dio, che è Padre ricco di bontà e di fantasia. E’ certo che pure lui è frammento concepito da questo Dio. Insomma, comprende con tutta la sua anima di essere figlio di questo Padre. Quindi non solo figlio di due genitori, ma figlio di questo Genitore. Ora, se la sua sorgente è divina, se il suo luogo di partenza è la misericordia e la bontà per eccellenza, è mai possibile che da questa sorgente scaturisca acqua inquinata? Dio non partorisce sgorbi, brutti anatroccoli, ma… figli… a sua immagine e somiglianza. Un tale figlio si sente avvolto, preceduto, accompagnato da una presenza amica, che è quella di Dio. Vive in relazione con Lui, senza sentirsi sminuito, bloccato, limitato. Non si immagina arrogantemente a partire da sé: ‘Cogito, ergo sum (Penso, quindi esisto)’ diceva Cartesio, ma a partire da Dio, dal Padre: ‘Cogitor, ergo sum (Sono pensato – da un Padre buono -, quindi esisto)’. La certezza di esserci perché si è stati voluti e amati, di esserci perchè Qualcuno ci ha preferito alla non esistenza, ci mette dentro la certezza di essere positivi, degni di amore, creature congegnate ad ‘immagine e somiglianza’, di essere figli, appunto. Tutto questo se vissuto non solo con la mente, ma con le energie del cuore, ha la capacità di suscitare stupore, di incantarci, di commuoverci. Il figlio che impara a riconoscersi così prova una grande pace dentro di sé, un senso gratificante di armonia. Sente il bisogno di restituire, di essere generoso con una vita generosa. Viene attratto irresistibilmente dal fascino dell’amore. Si sente capace di dare, di donare, di amare. L’ingratitudine e la presunzione partoriscono piccoli o grandi despoti che mangiano energie invece di distribuirne. Il figlio che ammazza il padre non imparerà mai a diventare padre. E ora abbiamo chiuso il cerchio. Solo la gratitudine genera gratuità, solo il figlio è in grado di essere padre. L’ingratitudine, l’avidità, la conflittualità violenta, la guerra, la paura non appartengono alla vocazione del figlio. (…)  30.03.2003

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Santità con la muffa

Non intendo scandalizzare nessuno, ma quando penso alla parola ‘santità’ percepisco dentro di me una reazione istintiva di antipatia. E’ come se la santità fosse una vicina di casa poco attraente. Ecco dove sta il problema, che essa è uscita di casa per divenire la vicina sgradita. Il fatto è che mi evoca figure austere, pallide e ossute di Santi da altare con la smania dell’ascesi spirituale. Sembra compito per pochi addetti ai lavori, magari chiamati sin dall’eternità a votarsi e a svuotarsi per il Signore, roba per campioni olimpionici dell’anima che pur vincendo risultano sempre perennemente tristi. Confido, nello stesso tempo, che tale reazione in realtà lascia il posto, ed in fretta, quasi preparando la strada e provocandolo, ad un sentimento di curiosità e di fascino, proprio per la santità.  Infatti sono ricondotto a contemplare la santità biblica, quella vera, buona e finalmente attraente. Dalla sequenza delle pagine della Sacra Scrittura Dio si rivela come il Santo, il 3 volte Santo, il misericordioso, Colui che ama in modo totale e libero. Questo Dio troverà logico allora domandare con forza alla sua comunità: ‘Siate santi perchè Io sono Santo’ (cfr il Libro del Levitico). Comando ribadito ed interpretato dallo stesso Gesù: ‘Siate misericordiosi come il Padre vostro’ (Lc 6,36). Non è raro trovare in circolazione tra i credenti una forma di santità forzata e rigida. Chi la sceglie persegue il mito, perché improponibile oltre che irraggiungibile, della perfezione, e ahimè perfezione quasi sempre individualistica. Tipi simili sono dei gran lavoratori, stacanovisti, obbedienti ed irreprensibili. Temuti più che stimati. Troppa serietà però suona falsa e puzza. Visti da vicino, risultano appartenere alla categoria degli ‘affaticati  e stanchi’, dei cirenei controvoglia poco innamorati di ciò che portano e a rischio di depressione. Oppure si può individuare una santità al ribasso, mediocre e paradossalmente benedetta e raccomandata da qualche alto prelato. Mi è capitato un giorno di sentire un Vescovo del Nord che governa una piccola Diocesi del meridione che: ‘E’ bene andarci piano con i suoi preti! Poveretti, già è tanto che reggano al secolarismo imperante e non si becchino l’esaurimento nervoso. Se fanno la loro messa, curano il catechismo e l’Oratorio, danno una mano ai genitori a sistemare l’immancabile adolescente che dà di matto o a mediare le relazioni di una coppia che s-coppia questo mi basta’. Un realismo anche questo che sa più di sana organizzazione del lavoro, che di santità, o di donazione generosa, o di passione per le cose di Dio, o in definitiva di santità vera. E’ quest’ultima in fondo la santità che Dio desidera per tutti i suoi figli. Noi siamo congegnati proprio per questo, qui sta la nostra identità e la nostra vocazione: amare in modo gratuito e libero, donarsi con responsabilità, cercare il bene dell’altro. Una santità la nostra che domanda di essere declinata nella ferialità e banalità della vita, in modo corale e condiviso. Non c’è altra via per umanizzare la faccia della nostra terra, che lo si sappiano oppure no, che si sia credenti o meno. (06.06.2007)

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