Processionando

Un amico impressionato dal numero di Chiese distribuite sul nostro territorio andava almanaccando anche sul numero, secondo lui infinito, di uscite processionali. Il numero non è infinito, ma considerevole e ciò che più conta è la buona qualità in genere delle nostre uscite religiose. La quantità degli imperdonabili chiacchieroni che vi partecipano troppo allegramente si va assottigliando.

Il silenzio, la compostezza, la preghiera e il canto ci inducono a pensare che le cose funzionano. Noi che vi partecipiamo da anni possiamo assicurare che sono esperienze belle, non solo scenicamente, ma per sostanza.

Esperienze che regalano consolazione e percezione viva della presenza del Signore che cammina con le sue creature. Lasciateci fare tuttavia un appunto critico, con la speranza che diventi uno spunto educativo per quanti non capiscono. Irrita vedere che al passaggio del Santissimo o della Vergine ci sia chi sbraitando ordina un chilo di formaggio, o chi si accende proprio in quel l’istante la famigerata sigaretta, o cosa nuovissima chi a un metro dal corteo si inventa una beata conversazione al cellulare. Non prendete queste osservazioni come una forma di galateo antiquato e antipatico o come un guardonismo all’incontrario (normalmente chi fa il guardone spia dall’esterno verso l’interno, mentre qui osserviamo dall’interno della nostra marcia verso l’esterno).

La nostra intenzione è di ordine culturale ed educativo. Siano convinti che una processione o una manifestazione religiosa, che potrebbe essere benissimo anche non cattolica, ovvero ortodossa, oppure musulmana o di ritualità orientale, possa essere considerata come del materiale culturale, espressione dell’anima di una comunità: possibile mai che non susciti se non interesse e rispetto, almeno un po’ si sana curiosità? Ecco il punto.

Ognuno è libero di reagire di fronte ad un evento religioso come meglio crede, può essere che per taluni, tali forme inneschino fastidio e irritazione, traditi da una eccessiva plateale indifferenza. Ma dov’è finita l’attenzione per l’altro, il gusto per ciò che rivela storia e umanità, l’ascolto dei frammenti di bellezza che escono da una comunità, la sensibilità per il mistero, il piacere di incontrare al vivo (cioè non al museo) un pezzo di cultura? Ovvio che ci sono segnali di segno opposto che fanno ben sperare, ma spiace notare chi non solo ha cuore ‘piatto’, ma anche testa ‘fredda’.

(Natale 2007 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

Condividi Post ...

Dio: verità inverosimile e perciò vera!

A Natale Dio ci sorprende, colpisce la nostra ammirazione, ci attrae. Se l’incanto finisce troppo velocemente, se il tutto si riduce ad un fugace intenerimento del cuore, se l’ammirazione è debole allora qualcosa non funziona. È probabile che abbiamo ridotto il mistero a qualcosa di ‘verosimile’, e quindi di quasi vero, e perciò di falso, che sa di cartone e di bigiotteria. Se ci pensiamo bene è ‘inverosimile’ che Dio, bastevole a se stesso, si prenda la briga di entrare nella storia, di abitare la terra, ma questo è terribilmente vero. È ‘inverosimile’ che il Totalmente Altro, che si identifica con il cielo si sia fatto carne, eppure questo è sorprendentemente vero. È del tutto ‘inverosimile’ che il Signore abbia deciso di iniziare la sua avventura coinvolgendo una ragazzina ebrea di periferia, tuttavia questo risulta stupendamente vero. È necessario allora superare l’apparenza e assaporare la sostanza, lasciarci incantare dalla Verità che sta oltre. Oltre la scorza delle abitudini religiose. È un Dio che viene e si lascia toccare per chi indaga con il desiderio della mente e del cuore, per chi va in profondità. Questa operazione spirituale, o se volete questo esercizio della mente e del cuore andrebbe vissuto non solo in momenti canonici e solenni, talvolta un po’ artefatti e scontati, come sono i nostri Natali, ma nel dipanarsi ordinario della concretezza della vita. Scopriremo che Dio si prende cura di noi come un padre innamorato.

A prima vista la cosa ci può apparire infantile o demodé, roba da altri tempi, insomma improbabile e quindi ‘inverosimile’, ma a questo punto niente di più vero, di più serio, di più bello. Impareremo che Dio abita ogni frammento del nostro tempo affettivo, famigliare, lavorativo, religioso. Lui è li, anche dentro al vuoto e al male che soffriamo. Lui intende incontrarci, educarci, liberarci, amarci. Qualcuno potrebbe ritenere che questa è materia da mistica ‘inverosimile’, eppure nulla di più sconcertatamente vero. Lui nasce e noi nasciamo come credenti quando ci lasciamo incontrare e amare, quando entriamo in relazione con Lui. Possibilità ‘inverosimile’ e proprio per questo verissima. Fin qui abbiamo giocato con il principio che ‘ciò che è verosimile è falso e ciò che è inverosimile è vero’. Ora permettete che affrontiamo la luce del Natale dalla prospettiva di un secondo principio che suona così: ‘La verità va sempre in coppia’. È regola di comune esperienza. Per comprendere la verità della vita è necessario patire la verità della morte. Imparo ad apprezzare la mia identità quando imparo ad apprezzare e ad avvicinare l’identità altrui. Scopro il mio io quando interagisco con il tu. E così via. Le verità vanno a braccetto, si danno la mano. Assodato questo fondamento, possiamo dire che a Natale il Mistero di Dio svela se stesso e così facendo richiama e svela il mistero dell’uomo.

La luce della Verità accende la verità dell’uomo. Continuando potremo affermare che la Verità che è Dio richiama, illumina, valorizza, ordina, lega insieme e fa danzare ogni frammento di verità intorno a sé. Detto diversamente, Dio non solo domanda alla mente e al cuore di indagare e di scrutare la Verità, di riconoscere la presenza del suo Mistero dentro alla nostra storia, ma anche di cercare in ogni direzione e in ogni ambiente tracce e frammenti di verità. Di tenere la mente e il cuore aperti e liberi. Quando si difende a spada tratta la propria verità assolutizzandola, rinunciamo presuntuosamente alla verità dell’altro e facciamo morire la nostra. Il motivo sta proprio nel fatto che le verità si cercano, domandano di stare in coppia, si spiegano mettendole a confronto. Separandole e mettendole in contrapposizione si crea confusione e povertà. In somma sintesi a Natale e dal Natale Dio viene concepito e a sua volta concepisce il credente. Un discepolo non dalla testa ottusa, ma libera che non finisce mai di meravigliarsi e quindi di imparare.   Vi sembra inverosimile?  Auguri!

(Natale 2007 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

Condividi Post ...

Gratuità a tutti i costi?

Forzando un momentino le cose, provo a condividere ciò che ho cercato di proporre come riflessione nell’ultimo incontro del gruppo catechisti. È un’analisi e una provocazione buona per tutti coloro che ci tengono alla fede e che sono consapevoli del loro ruolo di educatori alla fede come genitori o nonni. Son partito da un dato di fatto che è sotto gli occhi di ogni operatore pastorale che voglia procedere con onestà. Non solo qui a Meduno-Tramonti, ma in tutta la realtà diocesana, e direi nordica, si dice di sì al catechismo e pacificamente di no alla liturgia. Gli sforzi ecclesiali vanno nella direzione di una pastorale dell’iniziazione e della missione e tuttavia quello che si raccoglie è una frequentazione troppo consumistica. Normalmente, anche questo è dato della realtà, le reazioni degli addetti ai lavori sono di lagna da una parte, col suo contorno di insistenze nervose, di sbotti infastiditi, di ansia da risultato, di scontentezza e di amarezza, dall’altra di superficialità, fatta di abitudine, di ripetitività, di stanchezza dove l’educatore alla fede è il primo a non crederci.

Guardando allo stile pastorale di Gesù, perfetto catechista anche se non proprio così riuscito se esaminato con criteri umani, si scopre una misteriosa reazione di fronte alle resistenze e ai fallimenti incontrati e sofferti. Gesù reagisce alla chiusura con l’apertura massima, con la gratuità. Lui semina in modo esagerato, eccedente, inizia dal terreno duro, dalla strada e non smette. Semina senza calcoli, fiducioso e appassionato.

Son convinto che dal suo atteggiamento c’è parecchio da apprendere. Superando le tentazioni e le sabbie mobili della lagna e della superficialità, reagendo con tenacia e gratuità ne guadagnerebbe la qualità del nostro servizio di educazione alla fede. Diverrebbe autentico, generoso, gratuito appunto. Aumenterebbe pure l’efficacia dell’educare alla fede perché tutti s’avvedrebbero che si tratta di un servizio vero, senza amarezza, più convincente. Insomma, senza voler negare l’importanza di affinare i metodi, di organizzare i progetti, senza snobbare la fatica tecnico-organizzativa, ritengo che la centralità spetti alla dimensione spirituale, che noi abbiamo chiamato gratuità.

Una seconda considerazione positiva e di speranza che possiamo elaborare in merito è l’invito a collocarci da una prospettiva nuova, differente. Mi spiego. Oggi si fa un gran parlare di post-cristiano. Ancora dalle parti del Concilio Vaticano II si discuteva di secolarizzazione, di mondanizzazione, di perdita del senso del sacro e del religioso, di eclissi di Dio e via dicendo. È una prospettiva da tenere in considerazione ovviamente, pur permanendo tutta una serie di elementi tipici della cristianità di un tempo come la richiesta della catechesi parrocchiale, la domanda dei sacramenti, dei funerali, delle benedizioni, il bisogno dei simboli. Cose tutte da valorizzare e da far maturare.

In ogni caso forse è l’ora di iniziare a metterci in una prospettiva di pre-cristianità dove un po’  tutto è da inventare e da definire. È la situazione delle Chiese primitive, la situazione di Pietro e di Paolo. Osservando la realtà da questo fronte si può recuperare l’entusiasmo degli inizi, la voglia di condividere ciò che di più bello si possiede, la fedeltà diviene gioiosa contagiosa, il servizio di educazione alla fede gratuito. Quindi gratuità a tutti i costi non per auto imposizione volontaristica, ma per slancio, per desiderio, per ragioni di speranza.

(Natale 2009 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

Condividi Post ...

Dimenticati o chiamati?

La memoria del Natale mette in evidenza la nostra identità: non siamo una masnada di disperati o un branco di sbandati, ma creature amate da sempre da Dio e perciò chi-amate da Lui. Dio è talmente affezionato a noi da prendersi cura come una madre della sua creatura. È nato tra le nostre case. Mosso da tenerezza intende condividere la nostra storia e coinvolgerci nei suoi disegni. Detto diversamente: la vita è un dono ricevuto per pura grazia (Dio ci ama e ci chiama all’esistenza), e nello stesso tempo la vita è un dono da donare, da restituire (Dio proprio perché ci ama, si avvicina e ci chiama a fare come Lui, ad amare). Questa è la vocazione di fondo che compete ad ogni creatura che lo sappia o no.

La Chiesa: la casa dei chiamati. Se quello che dicevamo viene preso sul serio, la Chiesa diventa la compagnia di coloro che liberamente si mettono in ascolto, e gioiosamente rispondono alla chiamata, si decidono di collaborare con Dio. E in virtù del fatto che si sentono chiamati e attratti da Dio, riescono a loro volta a diventare chiamanti, attraenti, provocazione per altri. Eccola la Chiesa che piace a Dio: una Chiesa di chiamati e di chiamanti, una Chiesa vocazionale. Una delle cause della crisi vocazionale dei consacrati sta proprio qui: nella debolezza di una cultura vocazionale, di un modo di intendere la vita come dono ricevuto e da spartire. Se viene meno l’attitudine a dare, se non ci si sente chiamati a spendere la vita con gratuità, allora l’entrare in Seminario diventa roba per pochi isolati eroi dello spirito, magari troppo seri e anche un po’  tristi. Più che di Chiesa di chiamati diamo l’impressione di essere così la Chiesa dei clienti… occasionali ed esigenti. Diventiamo i consumatori di ‘articoli religiosi’: di Messe, di Sacramenti, di cose sacre. Scambiamo casa nostra per una bottega… per finire che a furia di consumare non resti più nulla.

La sofferenza: il luogo della chiamata. In questa visione delle cose, la fatica, la crisi, la prova, la sofferenza anche quella più assurda e dura è una sorta di grembo dove Dio si muove e cresce, diviene un luogo ideale dove Lui chiama e ama. È paradossale quello che sto dicendo, ed in realtà la prima reazione di fronte al dolore è la rabbia, la percezione che Dio è lontano. Ma è proprio nel buio, nella notte, nel vuoto che Lui può agire con maggior libertà. Lì a contatto con la nostra povertà vulnerabilità, messi in ginocchio nella nostra impotenza ci è dato di fare esperienza di che cosa significhi finalmente essere amati. Rimane solo Lui: Madre che non abbandona il figlio, Padre di cui ci si può fidare. Amati così per quello che siamo intuiamo che non possiamo buttarci via, ma che siamo  chiamati a tirar fuori il meglio di noi. E guarda un po’ iniziamo a rispondere finalmente alla nostra vocazione, diventiamo fecondi e portatori di vita, noi che ci consideravamo solo sfortunati, castigati e disperati.

I sentimenti: l’eco della chiamata. Dio chiama le sue creature a stare di fronte a Lui, e così mette dentro, in profondità un bisogno di vita, di libertà, di pienezza… un bisogno di Lui. Solo Dio può saziare tale desiderio potente ed intenso. Dalle radici della nostra anima sale una voglia assoluta di pace. È una voglia, una fame che non si sazierà sin che non riposeremo in Dio. Ecco perché i Padri della Chiesa e gli autori di vita spirituale affermano che ogni desiderio se analizzato nella sua origine è un desiderio di Dio, anche i desideri deviati e oggettivamente cattivi. Intendo dire che se impariamo ad ascoltare la nostra anima, se apprendiamo a valutare ciò che accade con uno sguardo intelligente (intelligente deriva da intus legere, leggere dentro) comprenderemo che in partenza ogni sommovimento del cuore, foss’anche rabbia, odio, cupa disperazione, è a ben considerare, ricerca di pienezza, voglia di libertà, nostalgia di Dio. Da qui possiamo affermare che nessuno di noi è inadatto alla vocazione della vita. Anche i ‘lupi’ e non solo gli ‘agnellini’ e i mansueti, se presi e se si prendono per il verso giusto, possono fare la loro parte positiva. Se questo è vero possiamo ritenere che il mondo per quanto pazzo e conflittuale sia non è mai perduto e disprezzabile.

Ora, caro amico, vedi come l’Eterno celebra il suo Natale assediandoti ovunque ma senza forzature, cerca di sedurti ma lasciandoti libero, si mette nel bel mezzo dell’ultimo posto dove ti aspetteresti di trovarlo: Lui ama e chiama. Tu piuttosto dove sei? Buon Natale!

(Natale 2005 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

Condividi Post ...

Impressioni Keniote

Rielaborando nel cuore e nella mente l’intensa esperienza del visita alle nostre missioni diocesane in Kenya che ho compiuto a Gennaio di quest’anno, mi fa piacere condividere alcune impressioni. Premetto che nel 1991 fui contattato ripetutamente da Mons. Sennen Corrà e da Don Romano già allora missionario in Kenya per unirmi al progetto missionario della Diocesi in Africa. Si trattava di dare il cambio agli altri preti ‘fidei donum’. Allora si parlava di un turnover di una decina di anni. La richiesta la respinsi al mittente, e a conti fatti forse lo Spirito me l’ha suggerita essendo in quel periodo così immaturo e fragile.

Ad ogni modo, Don Elvino, don Romano, le Suore delle Parrocchie di Mugunda e di Sirima, i missionari e le missionarie incontrati, religiosi e laici vivono il loro servizio, che domanda oggettivamente coraggio e dedizione totale, con la più assoluta naturalezza e normalità. Quando arrivano i complimenti li accettano volentieri, ma mal sopportano essere definiti eroi e caschi blu del Vangelo. Questo tratto del loro profilo li rende ancor più convincenti. A ben pensarci l’ipotesi di essere chiamati a dare la vita nella sua interezza non è così remota da quelle parti. Eppure il tutto è affrontato con spontaneità. È la normalità del Vangelo, è la normalità della Verità della vita: dono ricevuto che tende a divenire dono restituito ad iniziare dagli ultimi.

La seconda impressione la ricavo dalla differenza abissale tra il nostro mondo occidentale e il mondo del popolo africano. Differenza culturale, emotiva, storica, ambientale… ecclesiale, politica. La nostra idea di verità, di persona, di tempo non è nemmeno parente lontanissima della loro. Nel processo lento, paziente, intelligente e creativo di inculturazione e di evangelizzazione ho notato in loro una matura e forte accettazione della differenza. Accettazione che non significa approvazione, ma libertà di permettere che le cose siano così, disponibilità a misurarsi con ciò che non torna nei propri schemi, valorizzazione del buono che c’è in tutti e in tutto.

Importante questa lezione che arriva dal Kenya per noi così insofferenti per tutto ciò che suona diverso, smaniosi di rendere l’altra nostra immagine e somiglianza, incapaci di fraternizzare con chi non rientra nei nostri gusti. Mi sia consentito una battuta sul mal d’Africa. A lungo ho cercato di indagare sul virus del mal d’Africa. Ho compreso che è una sorta di innamoramento cronico del sorriso, dell’ospitalità, dell’espressività, degli odori, dei profumi e dei colori africani che riempiono gli occhi, la mente, il cuore, la memoria. È possibile ed è giusto che anche noi ce ne lasciamo salutarmente contagiare.

A proposito di Africa e di poveri, spiace in questo scorcio di stagione sociale e politica assistere a tanta fermezza sul fronte della sicurezza non controbilanciata da una effettiva proposta di sviluppo e di giustizia. Per rendersi conto di questa aperta contraddizione, non copribile da proclami televisivi portati con una faccia tosta intollerabile, è bastevole spendere una decina di giorni con i missionari fuori dagli scontati itinerari turistici. Si evincerebbe che la mano dura e ferma è la medesima che affama insaziabile.

Da questo punto di vista la nostra accoglienza non dovrebbe essere minima, ma la risposta minima che ci si aspetterebbe.

(09.08.2009 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

Condividi Post ...

Ascolto

Mentre scrivo sono in una condizione di ansia per l’intervento chirurgico che debbo affrontare. Le idee si appannano. Decido di proseguire nello scrivere anche se l’emotività mi imbroglia un po’. Ma sono curioso di leggermi a distanza… e comunque qualcosa da comunicare ce l’ho, e fortemente in sintonia con quello che sto vivendo. Sento dentro un grande bisogno di parlare e quindi di essere ascoltato. È proprio l’ascolto il terreno nel quale vorrei entrare per compiere una breve esplorazione. In queste settimane ritengo di essermi affidato a medici veramente in gamba, ma con scarsa attitudine all’ascolto. Tutto negli ambulatori si svolge così in fretta. Uno talvolta ha l’impressione di essere un pezzo di ‘ernia lombare’, più che una persona… con bisogni e paure. Anch’io, non così raramente, vengo rimproverato d’andare un po’ in fretta, di aver tra le mani troppe cose. Mi sorprendo a provare piacere quando mi dicono queste cose. Eh si! Significa che sono attivo. A ben pensarci però questa cosa più che una virtù, è un peccato clericale ed infantile. Infatti fa a pugni con l’ascolto, che domanda pazienza e gratuità. È raro l’ascolto vero. Anche quando c’è, rischia di  scadere in ascolto di cortesia, in gentilezza voluta e costruita, in ascolto tecnico… se il cliente è interessante e utile. Facendo mia una riflessione di altri e adattandola, direi che la Chiesa del pre-Concilio ha dato un primato, non solo teologico, ma anche operativo alla PAROLA, e quindi alla predicazione… alla bocca. Era una Chiesa innanzitutto ‘Magistra’, educatrice, maestra. Quindi una Chiesa che pretendeva l’ascolto, prima di offrirlo. Ricordate lo schema del catechismo di Pio X? La fede andava ‘ascoltata’, imparata, ripetuta a memoria. Con il Concilio Vaticano II (attenti bene che la nostra è una riflessione grezza e artigianale, fatta di intuizioni, più che di accorte e studiate valutazioni), la Chiesa ha sentito il bisogno di mutare atteggiamento nei confronti del mondo, della storia. Il documento Gaudium et Spes (La Chiesa nel mondo contemporaneo) la dice lunga. Si è dato così rilievo ed importanza strategica all’ascoltare un mondo in perenne cambiamento, pena il parlare a vanvera, ad interlocutori che non potevano più intendere i linguaggi di un tempo. Senza smettere di usare la bocca, si è passati ad esercitare l’orecchio, l’ascolto appunto. Si sono moltiplicate così le ricognizioni, le settimane di aggiornamento, i dibattiti, le indagini, le verifiche, il dialogo con tutte le componenti della società (con le Chiese sorelle e le grandi religioni: ecco l’impresa ecumenica). A 30 anni dal  Vat. II alcuni stanno facendo notare che un ascolto di questo tipo è insufficiente. Perché alla fine si riduce ad un ascolto molto razionale, freddo, dove a contare sono le statistiche, i numeri, le tendenze. Dove c’è poco spazio per il mistero. Il volto della Chiesa appare deformato. Esiste una faccia con una bocca ed un enorme orecchio. Probabilmente a questo volto va aggiunto un secondo orecchio. L’orecchio dell’ascolto tipico del credente. Un ascolto accogliente, che dà spazio all’altro con tutta la sua diversità. Un ascolto che valorizza e apprezza, perché sa di trovarsi di fronte ad una creatura pensata ad immagine e somiglianza di Dio, una creatura che merita di essere ascoltata. Un ascolto che afferra il positivo dell’altro, i fremiti di bene dell’altro. Il bisogno di vita, di pienezza, il bisogno di Dio è piantato dentro e talvolta si esprime anche in modo  paradossale, violento, distruttivo, drammatico, terribile. Solo chi ha la saggezza di ascoltare può individuarlo.

In tutte le faccende umane, anche nelle più sporche e cattive, si agita un pezzo di verità, un frammento di vita che andrebbe apprezzato. Tale ascolto, senza forse volerlo, sente i movimenti di un Dio che lavora nell’animo dei sui figli e che li provoca a cambiare, a crescere, a diventare liberi e costruttori di libertà. Un ascolto siffatto abilita a collaborare con il progetto vocazionale dell’altro, ad incoraggiarlo.

A questo punto dobbiamo ritornare a parlare, e il parlare può diventare ora più caldo, più umano. L’annuncio diventa più credibile. Infatti, sarà un parlare contaminato dall’ascolto, dove l’altro si sentirà capito e si aprirà con fiducia a sua volta all’ascolto. Il parlare sarà accompagnato dall’energia dei sentimenti e sarà maggiormente  efficace. Non si partirà più solo dal dato teologico (la Chiesa dice che…), dalla causa di Dio vista in astratto, ma da una creatura alla quale Dio propone la sua causa. Il vissuto dell’altro richiamerà anche il proprio vissuto personale di uomo, di credente. Parlerò così non da tecnico, da accademico della teologia, ma da fratello credente che ha del suo da condividere.

Senza tralasciare il lavoro pastorale feriale e ordinario, è cosa buona che ogni credente trovi responsabilmente il tempo per ascoltare e il coraggio per parlare. Ritengo che su questo campo, il campo  delle relazioni, si giocherà buona parte della tenuta delle nostre Chiese nel prossimo futuro. Le opportunità non mancano: la nascita di un bimbo, un successo scolastico o professionale, la Festa di Prima Comunione dei figli, le nozze celebrate davanti all’altare, i colori del tramonto, l’incanto dell’autunno e delle altre stagioni, una lettura appassionante, la gioia del vivere, una bella vacanza, un bacio… oppure… la visita di una persona noiosa e petulante, una piccola calunnia ricevuta, una ingiustizia subita, un fallimento, la malattia del nonno… un fatto di cronaca nera, un dramma consumato tra le pareti di casa, un’immagine di miseria e di abbandono, una scena di conflitto armato vista alla TV, un atto di terrorismo, la visione della stupidità e della cattiveria umana… Tutto, proprio tutto può diventare, anzi domanda di diventare cosa da ascoltare, con l’orecchio della razionalità e con l’orecchio del credente. Tutto, tuttissimo, può trasformarsi in luogo dove condividere la nostra fede, dove promuovere la vita, dove far spazio al Dio che nasce.  Buon Natale!

(Natale 2003 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

Condividi Post ...

L’eccedenza del Natale

Gli articoli di apertura dei bollettini parrocchiali a ridosso delle feste religiose tradizionali non di rado li trovo scontati e noiosi, retorici e ripetitivi. In questo caso il genere letterario è quello parrocchialese, infarcito di moralismo e un tantino forzatamente speranzoso. Ho sempre detestato scrivere cose di circostanza. La tentazione mia piuttosto è quella di scivolare sul fronte opposto, di essere a tutti i costi originale, almeno nei titoli, ed in buona sostanza vanitoso e non proprio comprensibile. Tuttavia frugando nel cuore e lasciandolo parlare all’approssimarsi del Natale percepisco che Dio ci sorprende con la sua eccedenza, ci spiazza con la sua tenerezza e genialità misteriosa. È il nostro, quello di Gesù Cristo, un Dio eccedente. Questa sua esuberanza la colgo almeno in tre versioni.

Eccedenza amorosa. Così il celebre passo del Vangelo di Giovanni: ‘Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito’ (Gv 3,16). C’è da incantarsi! Non gli è sufficiente piegarsi su di noi, mettersi sulle nostre tracce come con Adamo nel giardino paradisiaco, intenerirsi e quindi agire abbracciandoci come madre. Lui si coinvolge, desidera fare esperienza reale di noi, farsi come noi, donare il meglio di sé, donare il Figlio. Eccede, va oltre, supera le proporzioni del bene. Gli bastava investire molto meno per togliere la spada fiammeggiante che bloccava l’accesso all’eternità. Mediocri allora certi nostri stili di vita eccessivamente preoccupati di sé, della propria salute, dove si tende a salvarsi e a conservarsi ad ogni costo. Scelte ed abitudini apparentemente sagge, ma in realtà prive di slancio, povere di dono, assolutamente non eccedenti e alla fine inconcludenti. L’altro lato della medaglia è l’iperattivismo, la frenesia, l’euforia lavorativa… lo stress. Eccedenza questa malata e altrettanto  inconcludente, anzi distruttiva. La contemplazione del presepio ha tantissimo da insegnare.

Ascoltando ancora il cuore trovo una seconda eccedenza, una eccedenza di normalità. Gesù non nasce nello squallore come troppa tradizione ha insistito, ma nel massimo della normalità, nella parte della casa riservata agli attrezzi e agli animali per pudore e decoro essendo gli ambienti intasati di famigliari. Maria non si eccita come una velina televisiva, ma agisce con naturalezza e disarmante normalità, lo avvolge in fasce. È ciò che   poteva e doveva fare come madre. Poi silenzio e obbedienza casalinga ed educativa per trent’anni: spiazzante normalità. Immediato il contrasto salutare avvicinando tale normalità con il nostro chiasso contemporaneo, fatto di apparenza, di immagine, di fama, di sovraesposizione effimera. Schiacciante normalità quella di Dio che celebra quanti si immergono nel quotidiano e nel feriale senza strepito e con responsabilità. Stimolante ed incoraggiante scoprire quanti s’avvedono della meraviglia che abita la normalità, fratelli e sorelle che apprezzano ogni frammento di bene, che intuiscono ovunque i segni della provvidenza e della generosità dell’Altissimo, che gioiscono con gratitudine per ogni gesto di pazienza, di perdono, per ogni relazione, per ogni sorriso e volto incontrato, dove vi leggono l’eccedente bontà di Dio che supera ogni tentativo di restituzione.

Da ultimo riconosco un eccesso di speranza. Per sostenerci ed aprirci all’ottimismo Dio ha deciso di piantare la sua tenda nel nostro accampamento, di fissare la sua casa tra le nostre. Lui è felice di spalancare le porte, di uscire tra i quartieri e lungo le strade, di invitarci alla festa preparata. Meschine allora, riduttive certe risposte rituali che trasformano il Natale nella festa dei doni, ovviamente da supermercato (sic!), o che al limite si accontentano entrando nella Sua casa di ottenere un piacevole struggimento del cuore, il quale poi ritorna alla consueta durezza. Risposte religiose di natura consumistica, che confondono il sentirsi in pace con il sentirsi bene almeno per un giorno. Esiste una eccedenza tutta da scoprire, da gustare, da godere. In ogni caso il fatto che si riempiamo le Chiese almeno per una notte sta ad indicare che il cuore batte per ciò che è grande ed eccedente. Si tratta della nostalgia di Dio, del bisogno della festa e della libertà. Speranza di lungo ed eterno respiro! Siamo più vicini alla sua eccedenza, alla verità e bellezza del Natale di quanto non sembri. Auguri!

(Natale 2009 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

Condividi Post ...

Rosariare o pregare?

Tutti sanno, ma è bene rinfrescarsi la memoria lungo il tragitto, che Ottobre accanto al più conosciuto e popolare Maggio è mese consacrato alla riflessione e alla preghiera mariana in una prospettiva universalistica, essendo Ottobre contemporaneamente mese dedicato al mondo missionario, intenso in senso ampio. Può accadere di avere l’impressione che il Rosario sia preghiera buona solo per le vecchie generazioni che a partire da Maggio lo hanno appreso addirittura dalle Messe di un tempo. Infatti prima del Concilio la Messa veniva celebrata in latino, lingua sconosciuta nella sua comprensione, e così per intrattenersi in Chiesa e non “perdere tempo” (sic!) si rosariava, al punto che la cosa diventava una sorta di cantilena. Vale a dire che si era concentrati di più su questo mormorio religioso che sulla vera e propria relazione di preghiera. Anche per questo le giovani generazioni non lo trovano così simpatico e attraente, fatta eccezione per alcuni gruppi di tecnici-simpatizzanti. Allargando la riflessione, possiamo formulare l’ipotesi che la preghiera, quella vera fatta di ascolto e di relazione sana e affettuosa con Dio, in genere è un tantino in crisi a motivo di un invincibile individualismo: “Iò i fas da be sol”, e appunto per questo il Tu, l’Altro è in più, non serve, anzi rischia di intralciare e di disturbare. Aggiungasi soprattutto per i maschi che la preghiera suona troppo al femminile, non sembra cosa da uomini, manca di virilità. Ed infatti nella preghiera è necessario avere la libertà di lasciarsi andare, di accogliere Qualcuno che parte per primo e che anticipa l’io. Dunque, tornando al Rosario, senza considerare una esecuzione più pacata e meno meccanica che ne migliorerebbe la fruizione e l’interesse, crediamo sia importante conservarlo e riproporlo… per strada, al lavoro, in auto, a casa, al mattino e alla sera, intorno alla tavola. Non sono necessari tutti i santi misteri. Per i neofiti bastano anche alcune Ave Maria. Strategici sono i nonni in questo caso. La loro conoscenza della materia e la loro spontanea competenza pedagogica possono molto con i nipotini. Interessante in ogni caso che resista in occasione delle esequie. I tempi e le occasioni non mancano per questa interessante e tradizionale forma di preghiera ecclesiale, molto biblica, per nulla devozionistica, almeno nel contenuto. Per quanti non intendono solo rosariare si apre così la prospettiva di pregare… il Rosario.

(20.12.2008 dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

Condividi Post ...

S.O.S. per la solidarietà

Stiamo entrando nell’ambiente liturgico e culturale del Natale e si moltiplicano le bancarelle della solidarietà. Sbucano nelle Chiese, nelle Scuole e nelle piazze cartelloni, ‘scatoline’, progetti che propongono raccolte, finanziamenti, opere da realizzare. Più di qualcuno viene infastidito da questa overdose di richiamo alla bontà. Altri si lasciano smuovere e commuovere sentendo una sorta di bisogno interno e materno ad essere almeno una volta all’anno più sensibili. Naturalmente è sotto gli occhi di tutti l’armata dei volontari, dei giovani e degli adulti delle Associazioni di servizio. Non sfugge all’attenzione dei più l’animazione diffusa e capillare di quanti si sono messi alla scuola del Buon Samaritano. Questo evidentemente fa piacere ed ha a che fare con il Regno di Dio. A questo punto ritengo sia utile spendere un paio di parole per incoraggiare ad entrare nella dimensione della condivisione da credenti, in modo convinto e autentico, evitando la logica dell’elemosina avara e spicciola. Se ci ispiriamo a motivazioni che arrivano dalla radice della fede ci metteremo al riparo da fastidi controproducenti, o da facili esuberanze che velocemente si trasformano in  stanchezze, della serie ‘Vadano a farsi benedire anche i poveri’, compresi quelli di casa nostra.

Provo a  partire dall’identità stessa del credente. Noi siamo chiamati ad amare Dio con tutte le nostre forze, con tutto il patrimonio delle nostre risorse affettive, di cervello, di volontà… e visto che ci siamo, anche con le nostre   disponibilità economiche e di tempo. Noi siamo congegnati proprio per questo, in tale relazione si nasconde il mistero della nostra libertà, della nostra riuscita. Ora più viviamo con intensità questa relazione verticale, più diamo spazio al primato di Dio, più ce ne innamoriamo e più acquisiamo i suoi gusti, le sue tendenze, i suoi criteri, le sue scelte. E guarda un po’, inizieremo a mobilitarci per i più piccoli, per gli svantaggiati, per i disgraziati della storia. Inizieremo insomma ad amare esattamente quello che Dio ama, perché Lui è Padre e Madre e difende i suoi figli, ad iniziare da quelli meno fortunati. Ricordate la storia del bacio al lebbroso di frate Francesco, l’inventore del presepio, il cantore del Natale? È talmente preso da Dio, che si lascia prendere dai gusti di Dio, sino a baciare il dis-gustoso volto del lebbroso. E ciò che gli era di ribrezzo si trasforma per lui in diletto piacevole. È su questo punto che val la pena di insistere, perché quando noi partiamo dalla nostra identità, quando mettiamo in moto il nostro desiderio allora ci diventa connaturale, ordinaria, bella, piacevole la condivisione e non sarà più necessario quantificarla perché ne saremo   totalmente coinvolti.

Mentre scrivo ho sotto gli occhi ‘Korogocho’ una delle ultime pubblicazioni di P. Alex  Zanotelli. Dall’inferno di quella spaventosa baraccopoli costruita sopra una gigantesca discarica alla periferia di Nairobi, P. Alex racconta di Florence, una ragazzina che ad 11 anni aveva iniziato a prostituirsi, che a 15 si era ammalata di AIDS e che a 16 stava morendo sola come un cane, coperta di pustole, abbandonata anche dalla madre. Mentre Alex e compagni la consolavano e pregavano con lei, Florence esclamò alla luce di un cero che le illuminava il volto ancora bello nonostante le piaghe: ‘Dio è Madre… e in fondo io sono Dio’. Curioso e affascinante! Partiti dall’amore per Gesù e il suo Vangelo, arriviamo ai poveri per condividere, dai poveri siamo benedetti ed evangelizzati, nei poveri troviamo un immenso tesoro, e da loro ritorniamo a Dio.

E il cerchio si chiude e riparte in un movimento che non consente pausa e noia.

(Natale 2006 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

Condividi Post ...

Verità debole?

Non intendo assolutamente associarmi al pessimismo piagnone e dilagante, al coro dei brontoloni senza speranza e cinici, ai pensatori distruttivi e nichilisti, agli artefici del pensiero lieve e debole se dichiaro apertamente che la Verità è debole. Non credo di dire una cretinaggine se insisto nel confermare che la Verità è piccola e debole. L’intuizione nasce anche dal contemplare la Verità che si fa carne, che si fa piccina, debole appunto. Qui per verità intendo la verità biblica, agostiniana. Verità in questo caso è ciò che merita, che vale. E ciò che vale è aprirsi, donarsi, entrare in relazione. Dio da questo punto di vista è il massimo della relazione. Non è una verità, ma la Verità. Ora la Verità e la verità in genere non è inopportuna, aggressiva, violenta perché sta in piedi da sola, è piena di beatitudine, è forte e quindi non abbisogna di difendersi o di attaccare alcuno. Proprio perché è ricca e forte alla verità piace aprirsi, offrirsi, condividere quello che possiede, ma senza forzare, nella libertà, nella debolezza. La stessa considerazione possiamo raggiungere se guardiamo alle due sorelle della verità che vanno a braccetto con lei.

La verità è accompagnata dalla bontà, ha per sorella la bontà. A ciò che è giusto e conta, alla verità sta a cuore il bene. La verità non ha interesse a danneggiare, ad intristire, ad imporsi con brutalità. Ci sono alcuni che afferrano un pezzetto di verità come si può tenere in mano un pezzo di una bellissima vetrata, ma lo brandiscono come un’arma. Senza scomodare gli integralismi di ogni origine e di ogni risma che difendono il loro pezzo di verità manipolandolo e snaturandolo in cosa cattiva e distruttiva, quando ci cimentiamo in dispute infinite, in conflittualità e rivalità piene di irritazione e talvolta di livore, in competizioni irrazionali noi stiamo maltrattando la verità.

L’altra sorella inseparabile è la bellezza. La verità per il fatto che custodisce ciò che conta, la nostra identità, il nostro mistero, quello che siamo chiamati ad essere è sempre attraente, seducente, bella. Qui non si parla della bellezza effimera, costruita, da carrozzeria. Non si dice di certe donne pagatissime che finiscono sulle copertine di importanti rotocalchi, che sono figure finte, false e alla fine anche paradossalmente brutte? Quando una verità è bella, riluce di luce propria e non tenta di ingabbiare, non è violenta, non si impone con norme e ordini di vario tipo perché affascina di suo. Capita che si possano trovare in giro certe figure di uomini e donne, anche di Chiesa, che sono eccessivamente entusiastiche o inopportunamente energiche finendo per essere decisamente brutte, malconciate, poco credibili e appetibili dando l’impressione di comprendere poco i dogmi che insegnano e di amare poco le osservanze che  propongono.

La Verità possa svelare a Natale i suoi occhi che incantano, il suo fascino al quale è difficile resistere, la sua potente e attraente debolezza.

(Natale 2006 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna) 

Condividi Post ...