Saluto di don Fabrizio De Toni all’Azione Cattolica

Passaggio inatteso e disorientante la chiamata ad entrare in forze presso il Centro nazionale come Assistente degli adulti di Ac. Appena concluso il mio mandato quinquennale come Vicario episcopale per la pastorale nella diocesi di Concordia-Pordenone ero proiettato per almeno altri tre anni come “regista” della Visita Pastorale da pochissimo avviata. Inoltre in diocesi ci stiamo accingendo a por mano ad una energica riorganizzazione dei servizi di curia.
La proposta arrivava energica e suscitava alcune perplessità: uscita di scena dal campo di gioco diocesano in un frangente delicato, congedo da due comunità parrocchiali con le quali si è condiviso un cammino intenso ma nel contempo troppo breve, famiglia con due genitori piuttosto acciaccati che vivono con a carico mio fratello disabile. Il discernimento non si è protratto per molto per arrivare al “sì”.
L’elemento che ha fornito la spinta ultima? Nessuna avance o messa in atto di ammiccamenti per arrivare al Centro nazionale. Era chiara per me che la domanda arrivava dalla Chiesa e dallo Spirito. Perché dire di no a qualcosa che Dio gradisce? E quindi, consapevole di tutta la mia povertà scendo dal Nord… sereno. Prendendo a prestito il linguaggio di Paolo di Tarso, arrischio di “vantarmi” di due dati oggettivi.
Per buona parte debbo la maturazione e la sagomatura del mio profilo vocazionale proprio all’Azione Cattolica, per la quale ho lavorato in questi ultimi anni come Assistente diocesano. Infatti, ho armeggiato come educatore Acr e più tardi Acg. Quindi un certo gusto per la formazione e per una azione pastorale includente i laici mi viene di lì. L’altro elemento di cui vado fiero è una “spina” che mi è stata conficcata nella carne all’età di trent’anni. Sono caduto in uno stato depressivo drammatico. Una debacle trasformatasi successivamente in storia di salvezza. Sono come rinato vocazionalmente: «Quando sono debole è allora che sono forte (2Cor 12,10)»! È il Magnificat che mi sgorga spontaneo dal cuore e non lo posso tacere. Ho appreso che l’arte formativa di Dio è “altra” rispetto ai nostri schemi rigidi e codificati. Lui ama e chi-ama sempre, in modo permanente, forma e plasma i sui figli in ogni frammento della vita, prove incluse. Lungi dall’avvilirmi o dallo spaventarmi è una verità che mi entusiasma, e mi attira esattamente là dove gli aspetti formativi vengono messi all’ordine del giorno.
Conoscendomi, lo dico in modo umoristico, penso che dovrò intercedere ogni mattina la grazia di non dimenticarmi che in AC non sarò il parroco ma l’assistente. La squadra con la quale collaborerò, e che ho già iniziato ad apprezzare, saprà certamente tenere a bada certe smanie adolescenziali. Desidero effettuare un ingresso e una permanenza accentuando l’atteggiamento dell’ascolto: di una memoria e un patrimonio straordinario, di ben 150 anni; di una famiglia piuttosto ricca nei suoi differenti livelli e articolazioni; di una prospettiva missionaria che non si accontenta di conservare le sue economie interne.
Avendo presente l’intervento provocatore e profetico di Papa Francesco al Fiac, il 27 aprile di quest’anno, e l’appassionata relazione del Presidente Matteo Trufelli all’ultima Assemblea nazionale, mi piace l’immagine casalinga della “gamba del tavolo”. Tra Preghiera, Formazione, Sacrificio, Apostolato la zampa prioritaria nella Chiesa sognata in Evangelii gaudium è quella dell’Apostolato, ovvero della Chiesa in uscita.
In uno scenario di identità deboli e aggressive è necessario vigilare sulla tentazione di arroccarsi nella cittadella dei convinti o nel lasciarsi andare allo scoramento. Più che a contarci nei numeri, a badare alle proprie economie di sussistenza o ad occupare spazi di visibilità, siamo sollecitati ad essere Chiesa e Associazione “inquieta”, libera di uscire dalla ripetitività e scontatezza, pronta ad incontrare, ad immergersi tra la gente per narrare la bellezza del Vangelo, impegnata ad educare alla corresponsabilità ecclesiale e sociale, in continuo discernimento coraggioso ed evangelico di ciò che è buono, vero, giusto, bello.
Per concludere, avverto che l’avventura associativa che s’avvia è come una sorta di “secondo annuncio” per me. Sento di essere nuovamente evangelizzato. Mi vengono riproposte le ragioni fondanti del credere per dare a mia volta ragione della fede che mi abita. Insomma, una immersione a tempo pieno nell’Ac, per la quale domando la vostra preghiera perché sia “battesimo” vero e fecondo.

don Fabrizio,
28 settembre 2017

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Porta stretta

la_porta_strettaCommento breve a Lc 13,22-30

Gesù è ‘in cammino verso Gerusalemme’. Non ci sfugga l’annotazione, che ritorna ripetutamente nel vangelo di Luca. Il suo non è solo un viaggio geografico. E’ un percorso teologico, vocazionale. E’ chiamato ad attraversare la porta stretta della morte, del dono di sé. Eccolo allora uscire con una battuta spiazzante: ‘Sforzatevi di entrare per la porta stretta!’. Accidenti a Gesù! Tocchiamo con mano la radicalità del Vangelo e il suo fascino. La porta è aperta. Dio desidera che sia una porta inclusiva, che non chiude fuori nessuno. Egli stesso esce dalla porta per chiamare i suoi figli, per introdurli nella casa della misericordia e della festa. La porta è stretta perché studiata per i piccoli, per coloro che la vita ha ‘ridotto’, per i semplici, per i peccatori, per color che si fidano di Dio come i bambini, per i poveri e i solidali con i poveri. Quindi, non è proprio impossibile entrarci. Non ci accada piuttosto di stringere noi il varco, di ridurre la porta, o addirittura di chiuderla con la pastorale ripetitiva e stanca, con l’indifferenza, con la cultura dello scarto. La porta è quella della misericordia!

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Amori fragili di Lidia Maggi

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Gli amanti (Les Amants) è un dipinto di René Magritte del 1928

 

 

 

La casa diocesana “Oasi Martiri Idruntini” di Santa Cesarea Terme (LE) ha ospitato, dal 3 al 10 luglio 2016, una settimana di ascolto e analisi di pratiche pastorali di evangelizzazione degli adulti sull’ambito del legarsi, lasciarsi, essere lasciati, ricominciare . Si tratta del terzo laboratorio previsto dal progetto “secondo annuncio”.

Condivido l’audio della relazione ‘Amori fragili’ di Lidia Maggi.

Lidia Maggi è teologa, pastora battista e presta il suo servizio a Varese. Oltre alla cura delle chiese a lei affidate, è fortemente impegnata nel dialogo ecumenico ed interreligioso.

 

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A Natale Dio con-divide

Più cammino e invecchio, più mi convinco che una delle categorie che più fortemente getta un’intuizione su chi sia Dio è la categoria della condivisione. Si! Dio è condivisione, sorgente e mondo di condivisione, il Padre della condivisione, il Figlio della condivisione, lo Spirito (l’Animatore) della condivisione. Qui risiede la ragione per cui Dio è luogo di vita e non luogo di morte. Qui sta il fatto che spiega la bellezza e la forza di Dio. C’è un canto a Cristo nel Nuovo Testamento, precisamente nella lettera che Paolo scrive alla comunità greca di Filippi, che recita: ‘Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio (letteralmente: non considerò una preda da non condividere la sua uguaglianza con Dio), ma spogliò se stesso, divenendo simile agli uomini’. Cristo, in altre parole, non stringe sotto i denti, come fosse una preda, la sua dignità, il suo essere Figlio, ma la condivide facendosi fratello, piccolo, uomo tra uomini. Questo in fondo è il Natale. Credo che la condivisione oltre ad essere una categoria interpretativa del cuore di Dio, sia anche una potente profezia, una provocazione salutare ed essenziale per l’uomo di oggi, che tendenzialmente pensa di essere bastevole a se stesso e per questo diventa presuntuoso, individualista e alla fine solo, incapace di con-dividere. Una delle tentazioni più intense del mondo occidentale è la tentazione del trattenere. Si tratta di una tentazione spessissimo inconscia, e per questo subdola e terribile, indolore, pervasiva, che come un cancro disgrega l’organismo che è la comunità degli uomini. Trattenere i soldi, il proprio tempo, le competenze, gli spazi abitativi, i beni, la terra, le risorse, la salute, le amicizie, gli affetti, addirittura la fede e infine la vita. Quando la vita non è più sentita come dono e dono da condividere allora l’abbiamo combinata grossa, drammaticamente grossa. Talvolta il non condividere nasce da un malinteso senso di umiltà: ‘Non dico la mia, non mi espongo perché non voglio fare il protagonista a tutti i costi (come invece fanno alcuni), perché voglio rispettare la libertà degli altri e non rompere troppo le scatole, perché magari li metto in ombra’. La paura e l’insicurezza giocano brutti scherzi, possono travestirsi di umiltà. E non manca chi ritiene di esser umile senza accorgersi di avere la puzza sotto il naso, della serie: ‘Io non mi metto in mostra come quelli là (perché io sono corretto e serio)’. Sic!
L’arrivo di don Massimo è stato ed è per me una provocazione incessante a decidere la condivisione: della preghiera, della tavola, dei progetti, del tempo, degli ambiti di lavoro, dell’ascolto, della fede. Il nuovo assetto delle Parrocchie della Val Meduna, gestite da due preti che coabitano a Meduno, domanda a tutte le comunità una conversione non scontata: la capacità di condividere i preti, le tradizioni, i progetti, il futuro. Forse sta proprio qui la bellezza del lavorare per il Regno, la gioia di prolungare il Natale del Signore, la Festa.

(Natale 2002 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Il Natale quando arriva… arriva?

Molti conoscono una nota battuta pubblicitaria di un noto comico italiano per una nota marca di panettone. Una battuta che si concludeva con il punto esclamativo e che noi abbiamo intenzionalmente modificato con il punto interrogativo. “Il Natale quando arriva, arriva!” a noi non sta bene, ovvero il Natale non ha una scadenza qualsiasi, che fissiamo noi. Non è un prodotto commerciale che decidiamo noi quando consumare. Il Natale lo decide Dio. Non è l’uomo che strappa dal cielo Dio, ma è Lui che decide di piegare il cielo e di scendere tra le nostre case. Incanta e sorprende il Natale, la decisione di Dio di entrare nella storia. Spetta a Lui decidere il quando e il come. Così Dio entra piccolo tra i piccoli. Sceglie una porzione piccina e periferica dell’impero romano. Mette radici tra gli ultimi, i trascurabili, i dimenticati. Il numero degli abitanti di Nazareth poteva ruotare intorno alle 500 unità. Nello splendido capitolo 15 del Vangelo di Luca viene raccontata la storia della pecora perduta, della dramma perduta e quindi del figlio perduto e ritrovato. Dio ha una singolare attrazione per ciò che è smarrito, lontano, bisognoso di cure. Con quelle parabole narra il suo volto di Padre e di Madre costantemente proteso verso i figli ad iniziare dagli umili, dagli svantaggiati. Lui stesso si rende piccolo tra i piccoli. Questa lettura dell’incarnazione del Figlio di Dio potrebbe e dovrebbe avere delle conseguenze nella vita del credente e nella sua spiritualità. Vale a dire che la modalità di intervenire e di operare di Dio nella storia dovrebbe dare forma anche alle nostre operazioni.

Una prima ricaduta potrebbe essere di ordine pastorale. Ci possiamo interrogare se nei nostri progetti pastorali ci stanno più a cuore i numeri, i risultati, le Chiese piene, la pubblica considerazione, il successo oppure la gioia di credere e di condividere la fede, il piacere della gratuità al di là dell’affermazione, l’attenzione ai piccoli, a tutto ciò che è piccolo, la riconoscenza per ogni fragile e imperfetto segno di bontà e di crescita. Ci piace di più ciò che conta, che si può toccare, che è evidente, oppure ci piace spenderci nella normalità e nella quotidianità? In altre parole, siamo dei pagani che corrono dietro a ciò che è forte e vincente, o dei cristiani che hanno imparato la lezione del Natale e sono felici d’essere pizzico di sale e di lievito nella pasta della vita?

Una seconda ricaduta andrebbe individuata nelle relazioni. Ecco la domanda: cavalchiamo il gruppo dei più forti, dei primi, non molliamo finché non la spuntiamo, lavoriamo per guadagnare punti, facciamo delle parzialità oppure incontriamo amabilmente e con simpatia ogni creatura e anzi ci commuoviamo per ciò che è piccolo, umile e autentico, reagiamo quasi istintivamente con affetto e responsabilità per gli indifesi, gli sfortunati, gli ultimi, amiamo un Dio minore, come dice certa spiritualità, e ci facciamo minori come Lui?

Una terza ricaduta positiva potrebbe essere di ordine interiore. In questo clima sociale e planetario di incertezza e di insicurezza che mette dentro melanconia e una certa sottile paura e che rischia di indurci all’arroccamento, alla  diffidenza e alla chiusura del cuore, il sapere che il Signore è venuto e viene proprio per gli incerti, per i piccoli, per gli smarriti ridà fiducia e speranza. Il Dio del Natale cristiano si trova a suo agio con i poveri, con i piccoli. La condizione di generale incertezza e povertà potrebbe essere la stanza ideale per lasciarci raggiungere da Lui, per apprendere da Lui il senso e la festa della vita.

(Natale 2008 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Asimmetria

Consentiteci queste considerazioni a margine di una estate, dove la presa di distanza dalle faccende ordinarie ci fornisce una visuale delle cose più libera e complessiva. A noi pare che nel campo formativo-educativo, ad iniziare da quello basilare e ruspante della famiglia, si è passati da modelli impositivi e autoritari di un passato non troppo lontano ad una pedagogia dello stato brado, fintamente democratica, assenteista, sprovveduta e pericolosa come la prima. Sempre più frequentemente ci si pone con i figli in un rapporto simmetrico, sullo stesso piano. In una vicina città abbiamo udito bambini che non usano più parole come papà-mamma, che vengono sostituite con riferimenti più moderni, del tipo Franco-Maria. In una relazione educativa seria ed efficace è decisivo che i ruoli siano chiari: c’è chi educa e chi viene educato, chi aiuta e chi viene aiutato, chi inoltra nell’arte del vivere e chi viene inoltrato. Ruoli differenti e asimmetrici. Esiste uno scarto che se non viene rispettato genera solo confusione e presunzione. Accondiscendere, accontentare per partito preso, giocare a fare i fratelli/amici dei nostri ragazzi potrà evitare grane, darci delle gratificazioni sull’immediato, renderci più ‘a la page’, essere comodo, tuttavia sul lungo termine si rivela strampalato e deleterio. In questo insano abbassamento spesso il massimo delle proposte educative è la nefasta regola del ‘fate quello che vi piace o che vi sentite di fare’. Certo che il desiderio va ascoltato, assecondato, fatto maturare, ma se lasciato da solo diventa un criterio consumistico. Vogliamo dire che il tempo dell’educazione non è come il tempo passato al centro commerciale per scegliere quello che piace a me e serve per me.  L’educare domanda responsabilità, fedeltà, sperimentazione di esperienze inedite, apprendimento di atteggiamenti essenziali, sacrificio, apertura all’altro, servizio, rinuncia, ascolto, sensibilità, progettazione del futuro. Abbiamo l’impressione che tale cultura o meglio pseudocultura dell’educare, pseudo perché non si pone la domanda su ciò che è vero e merita di essere posto come obiettivo da raggiungere, finisca con l’inquinare anche il settore fede. In un processo naturale di trasferimento Dio, nostro genitore, lo tiriamo giù e ne facciamo l’amico del cuore, quello che ci capisce, il grande NONNO a cui accendere un cero quando ci sono dei problemi e degli incidenti di percorso. Un Dio a nostra immagine e somiglianza, un dio pagano, che non c’è se non nelle nostre teste. Un NONNO dicevamo che ha una bella bottega, come quelle di una volta con i cassetti per la pasta, i vasotti con le caramelle e mercanzie per ogni esigenza. È la storia di una fede beceramente consumistica, di chi accede a dei servizi su cui vanta solo diritti e nessun dovere. Una fede blanda, a spot, che non ci fa crescere, che non ci educa. Dio è altro da noi, anzi è il totalmente altro, ha una parola di fuoco da rivolgerci, di quelle che trafiggono l’anima. Dio ha mille progetti formativi sulle sue creature, e ha una Parola di verità da svelare. Forse potremmo partire proprio da Lui per apprendere il nostro mestiere di educatori, per recuperare una necessaria differenza, per essere più efficaci facendo intuire ai figli che il vero divertirsi è frutto dell’impegnarsi, che la gioia è figlia della responsabilità, che l’appagamento è fratello della coerenza, che il bello ha a che fare anche con il sacrificio, che il lavoro non si riduce volgarmente a portar a casa quattrini, che la libertà è il bene più prezioso, che ciò che conta non è l’opinione dei più, ma ciò che è buono e giusto. Viva l’asimmetria!

(Natale 2008 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Incredible INDIA

‘Incredible India’ è lo slogan in versione inglese che riempie le finestre pubblicitarie delle Tv di mezzo mondo. Lo trovo dopo il viaggio da poco vissuto non solo accattivante, ma sincero e vero.

Avevo da tempo il desiderio di visitare questo paese lontano ed insolito. Una serie di circostanze me lo hanno permesso, non ultima il fatto che Gennaio/Marzo è la stagione ideale per evitare umidità e caldo insopportabili e monsoni travolgenti, e quindi mi ci sono buttato dentro con un gruppo di Parrocchiani. L’impatto visivo, fisico, uditivo, olfattivo è risultato violento e shoccante. Le impressioni soggettive che ne ho ricavato mi piace esprimerle e narrarle nero su bianco con tre aggettivi che commento qui di seguito.

L’India è polare, vale a dire che si intrecciano e si scontrano elementi opposti creando un ambiente fatto di sorprendenti contraddizioni. Gli odori delle spezie e gli aromi degli incensi si mescolano allo smog ed ai miasmi dei liquami creando un’aria mistica ed irrespirabile. Ricchezza di pochi e squallida ed esibita miseria dei più. Occhi di poveri che feriscono il cuore e matrimoni introdotti da vetture Rolls-Royce. I cervelli migliori del mondo nella ricerca informatica e frotte di bambini lasciati a se stessi. Lo splendore folgorante dei templi giainisti e il cumulo di immondizie che invade qualsiasi superficie. Preghiere e silenzi liturgici ad interrompere il rumore di città totalmente caotiche ed assordanti. Tutto risulta così pradossale, madornale, esorbitante, stridente ed… incredibile appunto.

Il secondo aggettivo è che l’India si presenta come popolo amichevole, mite e festoso. Anche questo dato evidentemente è quasi contraddetto dal suo contrario, dalla rivalità delle caste che ancor oggi permane, dalla conflittualità in alcune aree tra gruppi etnici e religiosi, dagli episodi di violenza. Eppure dopo l’ansia dei primi metri a piedi, sciolti e liberi, tra i carretti e le baracche dei commercianti e lungo le vie dove scorrono brulicanti quasi come immenso ed inestricabile termitaio risciò, poveri, ricchi, motorini, taxi/motocarro, macchine, moto, vacche e cani si percepisce che ci si può fidare e rilassare. I volti sono gentili, sorridenti. Ci si lascia fotografare anche senza sborsare rupie. I mendicanti insistono, talvolta afflitti dalla nostra maggiore resistenza, eppure alla fine qualcosa ci lasciano, ci salutano, si congedano e scompaiono con un sorriso. Possibile che tanta contraddizione non crei collera? Nel nostro veloce  attraversamento abbiamo colto piuttosto segnali differenti, di popolo entusiasta e fiero, speranzoso e creativo, incuriosito e aperto. Simpatico vederci scrutare le facce e sentirci salutati ed invitati in italiano.

L’ultima nota su questo paese così incredibile è che l’India è mistica. È una terra animata e sagomata da tradizioni religiose millenarie, venerande, piene di saggezza, dove simboli, miti, elaborazioni teologiche e filosofiche sono abbondanti e formidabili. Tradizione vissuta la loro, non solo roba turistico/folkloristica o merce buona per qualche museo nazionale. Commoventi allora e attraenti le liturgie dei giovani brahamani avvolti nei loro paramenti in riva al Gange a Benares, la visione delle loro abluzioni e purificazioni notturne e mattutine, le pire e i fuochi delle cremazioni, le concentrate espressioni di lode, di supplica e di meditazione dei fedeli, i loro occhi brucianti e velati durante la preghiera, il suono delle piccole campane nei santuari giainisti, le offerte alle divinità di incenso, petali, riso e frutta, il rispetto per il sacro, per i luoghi e gli uomini del sacro. La guida a più riprese sottolineava la fierezza degli adulti e degli anziani nel constatare che i giovani e i ragazzi si lasciano iniziare ai loro riti e credenze fors’anche con più intensità dei loro maestri.

Bella lezione per un prete cattolico talvolta spiritualmente un po’ stanco ed abituato. Consolante verificare da vicino come lo Spirito di Dio supera i confini certi della Chiesa, lavora libero e con fantasia da tempo da quelle parti. Almeno questo è credibile di quest’India incredibile.

(10.03.2010 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

 

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Orfani di orfani

Dio è Padre e Madre. Quando incontriamo l’espressione biblica di Dio che ha misericordia e compassione, per sé l’espressione ebraica che sta sotto è che ‘Dio ha utero’, è Madre insomma. Come quando in italiano noi affermiamo di qualcuno che ha cuore, così qui si può affermare che Dio ha utero, ha viscere (utero) di misericordia, che fremono di misericordia. Quindi Dio è Madre che si protende con tenerezza sui figli. È Madre che ama, e proprio perché ama è Madre che chiama. Dio più precisamente è un genitore che ama i figli e li chiama a divenire padri, a generare a loro volta figli. Nel mistero della Madre noi troviamo svelato il mistero della nostra identità e vocazione.

Partendo da questa bella verità divina e umana insieme non ci vogliono studi accademici per verificare che tale verità viene negata, infranta, rigettata da parecchi adulti che divengono orfani per scelta, che non ci stanno più ad avere Dio per Padre e Madre, che rompono la loro dipendenza da Lui/Lei. Ma dal momento che il bisogno di dipendenza è connaturale alla struttura del figli, eccoli qui i nostri adulti, presunti liberi, alla ricerca di altri padri che poi più tardi scoprono essere solo dèmoni che li hanno imbrogliati, ingannati e scaricati. Si ritrovano così ‘orfani di Padre e di Madre e orfani di mille diavoli’. La colorita battuta non è mia, ma la avverto così suggestiva che la sento mia permettendomi di lavorarci sopra. Adulti orfani, smarriti, agitati, confusi e insicuri. Figli orfani che hanno partorito a loro volta orfani, orfani di orfani come recita il nostro titoletto. Tremendo orfanaggio, dove si prolunga inesorabilmente la catena delle confusioni e delle insicurezze. Nella generazione di questi adulti vanno contemplati non solo i trentenni-cinquantenni, ma tutta la classe degli adulti  anagrafici: genitori, educatori, preti, suore… nessuno escluso. È un linguaggio forzato il nostro, ma a proposito con l’intento di far emergere un limite evidente e centrale. Esiste una tendenza ad abbandonare la relazione educativa, o l’illusione di esercitare una buona relazione educativa. Distratti e occupati altrove, addosso ai pargoli sino all’età dei dieci anni e poi fautori ingenui della pedagogia dello stato brado, incapaci di ascoltare i bisogni detti e soprattutto quelli non detti, assenti o iperprotettivi, rinunciatari e poco esigenti, di fatto lontani con figli lasciati a se stessi. Certi fenomeni sociali come il bullismo, il mammonismo, l’ipersballo del Sabato notte e della Domenica mattina o alcuni incomprensibili bronci e chiusure hanno qui la loro radice.

Più che puntare sulle tecniche di comunicazione, come andava di moda sino a qualche anno fa, o ascoltare l’ultima trovata dello psicologo di turno, o cercare l’intuizione geniale del consulente famigliare o del prete carismatico della Pastorale Giovanile, si tratta di recuperare ciò che antico eppure nuovo come il mondo, e cioè la nostra verità. Verità di figli che accettano intelligentemente di dipendere, di riconoscere il Padre/Madre, di riconoscersi figli. Verità che racconta di una vita ricevuta e di una vita donata a figli non più orfani, perché figli di genitori che vivono e che amano.

(09.08.2008 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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