L’ascolto attento: potenza che genera intesa e relazione

Audio Omelia del 09.09.2012

Domenica 9 settembre 2012

Letture:   Is 35,4-7a; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo,In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

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Evento Palasport: È il Signore

Siamo ormai a ridosso dell’apertura dell’anno pastorale. I nuovi Orientamenti pastorali triennali, i ‘cambi’ fitti che stanno interessando i servizi diocesani e numerose parrocchie, la spinta sulla corresponsabilità e sulla cooperazione in rete hanno contribuito a creare un clima di attesa per un profilo di Chiesa, che inizia a prendere forma, più comunionale ed estroversa. Per i 7 incontrati dal Risorto sulla sponda del mare di Tiberiade è stata una questione di desiderio, di sensibilità, di sensi esterni ed interni, e potrebbe esserlo anche per noi. Tutti e sette possiedono sensi ancora funzionanti. Ascoltano l’ordine di gettare la rete e… obbediscono, ovvero ‘ascoltano’ non solo esternamente, ma anche con il cuore, internamente. È solo tuttavia il discepolo amato (e più giovane di Pietro) che oltre a vedere con gli occhi la rete piena, ‘vede’ internamente, riconosce la presenza del Risorto, crede. Esclamerà infatti: ‘È il Signore!’. L’amato ricambia con il desiderio, riconoscendo e amando a sua volta. La sua fede intelligente e ardente riattiva la fede dell’anziano, il quale travolto dal desiderio si tuffa in acqua per raggiungere il Maestro. Si determina così un desiderio collettivo, una tensione/relazione di fede che trascinerà il gruppo dei discepoli insieme a barca e pesci ai piedi del Signore. È il mistero grande della fede che provoca una serie di conversioni che hanno Dio come punto terminale. Gli Orientamenti Pastorali 2012-2015, titolati: ‘Chiamati a diventare comunità di credenti nella corresponsabilità’, la scansione triennale (per il 2012-2013 ‘Vivere la fede’), il commento biblico/pastorale del capitolo 21 di Giovanni che li ispira, le Indicazioni Pastorali 2012-2013, e quindi le priorità , le indicazioni di metodo, gli obiettivi e le proposte contenute domandano sensibilità, reattività esterna ed interna, coinvolgimento di mente, di cuore e di volontà. Il PPD (Piano Pastorale Diocesano) consegnato in anteprima ha trovato un generale consenso. L’obiezione legittima di eccesso di materiale nella parte riservata alle ipotetiche iniziative può trovare una risposta nell’esortazione a confrontarsi con tale abbondanza per esercitare una mediazione libera e creativa. Più che disorientare,  il materiale dovrebbe accendere la curiosità e favorire un lavoro di squadra.  È evidente che quest’anno, primo del triennio, ci si concentrerà in uno sforzo a vari livelli sulla formazione alla fede, superando la tentazione di ridurre il tutto ad un fatto razionale o solamente emotivo. Una fede insomma che sia esperienza  squisitamente relazionale. Per introdurci in questa avventura abbiamo ideato un evento diocesano, che ha come scopo l’Apertura dell’Anno Pastorale in forma comunitaria, l’Apertura dell’Anno della Fede e la memoria dei 50 anni dell’Apertura del Concilio Vat. II. Ci daremo allora appuntamento per l’11 di Ottobre 2012 alle ore 20.00 presso il Palazzetto dello Sport di Pordenone. Titolo ufficiale della serata che ne richiama quasi letteralmente gli obiettivi: ‘È il Signore! Celebriamo insieme: Inizio Anno della Fede, Anno Pastorale 2012-2013, 50 anni del Concilio Vat. II’. La macchina organizzativa si è messa in moto già da tempo. Vorremmo coinvolgere in termini ampi: parrocchie, consigli pastorali, sacerdoti, diaconi, istituti di vita consacrata, laici, associazioni ecclesiali, rappresentanti delle chiese sorelle e i responsabili della cosa pubblica (sindaci) del territorio. Alle 20.00 avremo una sorta di animazione artistica, alle 20.30 la celebrazione eucaristica con una serie di ‘consegne’ simboliche e quindi, per quanti lo vorranno e potranno,  un tempo di orazione/contemplazione presso la vicina Chiesa del Sacro Cuore. A breve saranno pubblicati ulteriori contributi per illustrare contenuti e aspetti tecnici dell’evento. Ciò che ci interessa è chiarire che non si tratta di ‘Evento francobollo’ appiccicato alla routine pastorale, giusto per soddisfare il prurito della novità, e nemmeno la cosa nasconde il bisogno di un ‘bagno di folla una tantum’ tanto per tirarci su un pochino. Convenire in termini liturgici ed inclusivi sarà come coalizzarci per gettare le reti dalla stessa parte della barca, per imparare assieme ad ascoltare e a vedere, per maturare come Chiesa intorno al suo Vescovo gioiosa  e credente.

Don Fabrizio De Toni

Vicario per la Pastorale

09.09.2012

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La domenica andando alla Messa

Ricordo che fin da piccolissimo alla Domenica si andava alla Messa, ed era una festa ed un incanto… oggi l’espressione sembra sia solo anticaglia buona per essere attaccata come canto dei tempi che furono nelle osterie di paese dopo la Festa Patronale o come valzer in qualche ‘baladora’ di periferia. Quando di domenica si aprivano le finestre sull’aria fresca e riempita di sole della campagna; quando vedevamo il babbo che si lava al catino strofinandosi con vigore le mani sul viso, sul petto e sulle ascelle; quando la mamma ci vestiva con le braghe corte confezionate dalla sarta per la Domenica; quando le campane con insistenza spingevano lontano il loro allegro richiamo ci sentivamo attratti, irresistibilmente attratti proprio alla Messa. La terra, la casa, le stagioni, il paese, gli amici profumavano della presenza di Dio. Lui era come una mano larga e affidabile che tutto sosteneva. Ed eravamo convinti che la Chiesa fosse la sua e la nostra casa per eccellenza dove era bello accarezzarlo e lasciarci accarezzare. La Messa era una gioia: Dio stava con i suoi figli per confidarsi con loro, per incoraggiarli, per nutrirli, per riconciliarli come famiglia, per consolarli, per educarli. E per strada non si incontravano ‘amatori’ distraenti perché eravamo già in compagnia di Dio, a braccetto con Lui. E per noi questo era il meglio.

Io credo che in queste nostalgie riscontrabili in parecchi ex giovanotti dai 40 anni in su rivelino una serie di cose interessanti.

Il centro di gravità.

Sono convinto che l’uomo abbisogna di ordine, non nel senso della pura disciplina e di chiare regole, ma di un centro caldo intorno al quale fissare tutto il resto. Pena altrimenti il vivere dis-ordinati, senza ordine, smarriti, facenti parte della triste generazione del Boh. La Messa ha la pretesa di rimettere in ordine, di dare senso alla storia.

Un centro di gravità permanente.

Dal momento che noi siamo animali simbolici e ritmici è indispensabile il ritrovarsi con fedeltà attorno a questo centro. Non averlo chiaro sarebbe da ingenui. Solo l’assiduità, il ritmo garantisce pian piano la crescita e la stabilizzazione in noi di gusti, di sentimenti, di atteggiamenti, di pensieri che sono poi alla fine quelli stessi di Dio. Chi ci sta avverte che la faccenda funziona ed è godibile. Si spiega così il fatto di certe vecchine pimpanti e per nulla ammuffite, giovanissime dentro, che affermano con candore che senza la Messa non saprebbero stare.

… che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose.

La Messa, recitano austere le sacre pagine della teologia di sempre, è la Memoria Christi, la Memoria della Pasqua. Mettendoci con fiducia davanti al Tu di Dio e a ciò che Lui ha fatto, noi comprendiamo il nostro Io. Davanti al Creatore la creatura prende coscienza della sua identità di figlio, di voluto e amato da sempre e per sempre. Celebrare con autenticità e con gusto significa maturare nell’identità, irrobustirla, nutrirla. Ma perché dobbiamo rischiare troppo spesso di finire dallo psicologo per disturbi legati all’identità? Nella Messa, nel gesto dello spezzare il pane ritroviamo chi siamo chiamati ad essere: creature ad immagine e somiglianza dell’Altissimo, fatte per spezzarsi, per donarsi, per amare. È sempre in fondo una faccenda d’identità. Nulla di automatico e di scontato ben s’intende. Anche il sottoscritto, celebratore di un numero già considerevole di Messe, scivolò a  30 anni nel caos della depressione, allora avevo 5/6 anni di Ordinazione sacerdotale, e fu ‘costretto’ a chieder aiuto, guarda un po’ ad uno psicologo. Ma una delle pochissime consolazioni rimase appunto l’Eucaristia, quotidiana. Comprendevo che lì, esaurite tutte le altre certezze di un tempo, Dio mi restituiva la mia identità, che anch’io ero suo figlio, che sarei stato capace un giorno non lontanissimo di amare con gioia, di spezzarmi in positivo. Se era così voleva dire che non ero da disprezzare, che anch’io ero amabile, oggetto del suo amore. Se l’idea su noi stessi diviene deprimente allora iniziano i guai.

La Messa se presa in questo modo è la porzione di manna settimanale per affrontare con energia il cammino; è orientamento; è intuizione del mistero del vivere e della sua bellezza; è fremere contenti sotto la mano benedicente di Dio; è riappropriasi con stupore di sé stessi e del proprio destino; è…

Che pena quando lo sguardo corre sui banchi domenicali deserti, inesorabilmente vuoti, ad attendere gente distratta, tratta altrove. Non è una questione di soddisfazioni pastorali: della serie che la Chiesa piena rallegra il cuore dei pastori. Sarebbe abbastanza avvilente. Ma è in ballo una opportunità straordinaria per la riuscita della vita. Ecco perché Dio inventa la Messa: perché ama la vita. A buon intenditor non servirebbero altre parole.

(Natale 2005 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Il primato della Parola

Audio Omelia del 01.09.2012

Domenica 2 settembre 2012

Letture:   Dt 4,1-2.6-8 Sal 14; Gc 1,17-18.21b-22.27; Mc 7,1-8.14-15.21-23

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, in­ganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

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Relazioni virtuose

Abbiamo voluto questo inserto un tantino ‘sostenuto’ né per il prurito di differenziarci ad ogni costo né quasi infastiditi per la sola e solita ‘cronaca’ spicciola e poco colta. Crediamo che sia importante, in sintonia con una sensibilità accentuata (talvolta ipersensibilità esagerata) alla qualità delle relazioni, ed in sintonia con i progetti diocesani di questi anni che puntano tuttissimo sulle relazioni, investire delle energie su quest’area, riflettere, cercare di capirne qualcosa. Mi sia permesso di stigmatizzare alcuni tipi di relazione disturbata, di cui spesso ci lamentiamo, che ci infastidiscono e che non vanno solo imputati alla ignoranza o cattiveria dei soliti ‘altri’.

Si può evidenziare una prima tipologia di relazione mal funzionante: la relazione scarica. È una sorta di virus relazionale che sta circolando nella rete dei rapporti odierni, e che affligge o emerge con maggior intensità negli ambienti pubblici, Chiesa compresa. I tipi che ne sono contagiati soffrono di anemia affettiva, di desideri appiattiti. Sono i classici indifferenti. Se il mondo crolla ne prendono saggiamente atto e si tirano dall’altra parte. Ed è la morte della relazione. Tutt’al più si risponde al protocollo. Ciò che conta è non innervosirsi troppo e non lasciarsi innervosire. Burocraticamente tranquilli e ‘spenti’. Una delle nostre ultime perpetue doc, una certa Tonina di Portogruaro, definiva così i portatori ammalati del  virus, giocando con la parola energia: ‘Senza nevralgia’. Di attenzione, affetto, tenerezza nemmeno l’ombra.

Dal lato opposto ci sono coloro che dal punto di vista emotivo sono voraci, istintuali, insaziabili. Appaiono a prima vista entusiasti ed interessati all’altro, il quale tuttavia ben presto si accorge con delusione di essere trattato alla stregua di un oggetto. Una sorta di relazione consumistica, veloce, che brucia vittima e artefice.

Una parente stretta della relazione consumistica è la relazione ambiziosa. Può presentarsi sotto le mentite spoglie della generosità, dello spendersi a tempo pieno per il bene, del mettere a frutto i talenti ricevuti. L’ambizioso, spessissimo senza saperlo o con solo un vago sesto senso della cosa, cerca se stesso, mette come un bambino il suo io al centro e cerca disperatamente attraverso le sue performance consenso, plauso e applauso. Va mendicando una stima che non riesce a generare dentro di sé e che allora si illude di attingere fuori.

Per contrasto possiamo far spazio alla relazione virtuosa. Virtuosa in senso tomistico (San Tommaso), intesa non come relazione occasionale, ma permanente ed in formazione permanente, incessantemente desiderata e costruita, che ha a che fare con la propria identità. Virtuosa perché liberamente e saggiamente mette il tu al centro, compreso il Tu di Dio, che non divora le nostre relazioni umane, ma che conferisce loro luce e ordine. Specularmente alle altre relazioni false e drogate, la relazione virtuosa risulterà appassionante, desiderabile perché qui sta la nostra verità e riuscita; umile e discreta perché l’altro è l’oggetto dell’amore e non l’oggetto del possesso e del consumo; semplice e gioiosa perché  ‘c’è più gioia nel dare che nel ricevere’ (At 20,35).

(Estate 2007 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Gesù, pane dell’umiltà e della generosità

Audio Omelia del 19.08.2012

Domenica 19 agosto 2012

Letture:   Pr 9,1-6; Sal 33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58

Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

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I quattro cantoni

In Seminario un tempo sotto i grigi portici andava forte il gioco dei 4 cantoni. Era richiestissimo e non costava un soldo. Bastavano appunto quattro cantoni. Quindi quattro di noi occupavano i quattro cantoni e un ‘pandòlo’ stava nel mezzo cercando di accaparrarsi un ‘cantone’ quando i quattro alleati dovevano scambiarsi di posto. Chi rimaneva senza ‘canton’ era il ‘pandòlo’ di turno. Oggi, ad una osservazione non superficiale, non sfugge una certa perdita di ruoli, di identità. Si va ad occupare il ‘canton’ dell’altro perdendo di vista il proprio.

Lo schema può risultare sgangherato… ma mi sembra possa funzionare per descrivere la perdita di identità, la confusione dei ruoli e dei progetti di vita, i profili un tantino scolorati dei figli e degli adulti. Compresi quelli dei preti! Evidentemente! Non può sfuggire come nei nostri vivai educativi ci sia l’affollamento di bimbi precoci.

Le mamme e soprattutto le nonne vanno pazze per il loro pargolo  sveglissimo. Ecco il punto: talmente sveglio da atteggiarsi da adulto, sicuro di sé, autonomo ed intraprendente. Lo stesso pargolo lo si ritrova poi diciottenne imbranato, mammone ad oltranza, incapace di uscire dal nido affettivo. Strano questo ribaltamento di ruoli.

I padri poi più che occupare il loro posto, assolutamente non per cattiveria, ma per impostazione generale del modus vivendi, rischiano di disertarlo anche fisicamente. Talvolta diventano al loro rientro in casa autoritari ed insopportabili, proprio per recuperare il tempo perso, o si trasformano in mammi, amici e fratelli dei loro figli, ricoprendo atteggiamenti materni che non si addicono al padre, finendo per non dare sicurezza ed orientamenti. Le avete viste poi certe mamme trasformarsi per reazione in adulti aspri e troppo determinati, non dando al figlio l’accoglienza e il calore che generano fiducia e stima di sé?

Qualcuno lo ha chiamato provocatoriamente ed  umoristicamente un ‘Ballo in maschera’… deprimente e divertente al tempo stesso. Chiaro: è una linea critica di interpretazione delle relazioni umane, soprattutto famigliari, da integrare con altre valutazioni e di altro segno. Nessuna volontà di incupire… ma solo di pro-vocare, di richiamare all’assunzione della propria identità vocazionale.

Il Natale và in questa direzione. Dio occupa il suo posto. E avanti alla sua identità emerge la nostra di identità, il nostro essere figli e figli amati. Sia questo un Natale formativo. Mettersi davanti al Tu di Dio non è una operazione puerile, da presepio senz’anima. Questo Tu celebra il nostro Io, lo fa uscire dalla confusione, lo definisce e lo chiarisce. Lui nasce… e sarà come rinascere.

(Natale 2004 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Gioia sostenibile?

In questa stagione dalle facili depressioni, e dagli umori tristi più che giustificati e comprensibili, ho letto da poco un paio di saggi dove si ragiona circa la “gioia possibile” oppure detta “felicità sostenibile”. Sono espressioni che condivido nella sostanza, che richiamano realismo e prudenza e che peraltro non mi convincono del tutto lasciandomi una impressione di una certa rassegnazione in partenza.

È evidente che il cuore non potrà mai ottenere sulla faccia di questa terra una gioia compiuta. Lo afferma prima e più autorevolmente di noi San Agostino quando scrive: “Tu ci hai fatti per Te Signore e il nostro cuore non avrà pace finché non riposa in Te”. Interessante questa conclusione che esce da un uomo bruciato dal desiderio di felicità. Tuttavia credo sia possibile osare di più, anche nel linguaggio parlando di felicità tout court senza paura di essere fraintesi, solo per amore della felicità. Io partirei quindi da una legge psicologica e spirituale insieme, legge che potrà sembrare strampalata o almeno singolare che suona così: “La gioia non va mai cercata direttamente”. È una tesi che a ben pensare sul fronte della esperienza non è difficile sostenere.

La gioia cercata intenzionalmente e direttamente si rivelerà inesorabilmente effimera, fugace. L’ansia che si tentava di cacciare si moltiplicherà. Si presenterà una fame ancora più assatanata di stima, di considerazione, di consolazione, di… felicità appunto. Infatti quando ci gettiamo sulle cose per possederle o andiamo a caccia di emozioni per gratificare all’istante i nostri bisogni, questi a breve scadenza si ripropongono più esigenti di prima, più intensi, più affamati, più insaziabili.

La felicità che si ottiene agendo d’istinto (va dove ti porta il cuore) sarà felicità nervosa e spesso insulsa che corrisponde allo sballo del Sabato notte e allo stordimento della Domenica mattina. Gioia allora frenetica e illusoria. Misteriosa allora questa gioia sempre più confusa con l’eccitamento. Più la si cerca direttamente e più scappa. Sentite, tanto per confermare, come si esprime balordamente, ma genialmente a tempo stesso il Vasco Rossi in una delle sue ultime canzoni: “Gioca con me. Fare l’amore è molto semplice. Non c’è nessun perché. Prendilo com’è”. Avvicinandosi alla verità centrale dell’uomo, che rimane misteriosa e non afferrabile in senso stretto, mi vien qui da proporre due altre tesi per aprire la strada alla “felicità sostenibile”, o meglio alla gioia come sale della vita. La prima suona in questi termini: “La gioia è figlia del LASCIARSI FARE più che del fare”. È essenziale che impariamo a lasciarci raggiungere dal bene, ad avere la libertà di lasciarci amare, di godere del bene ricevuto. Il credente in questo senso è davvero fortunato e se non gli accade di sentirsi fortunato allora è grave il suo stato di salute. A conferma di questa tesi, ricordo il rientro dei discepoli dalla loro esperienza missionaria.

Raccontano a Gesù le loro performances, i loro successi missionari-pastorali. Gesù li ascolta e poi li stressa rispondendo: ‘Non rallegratevi (ecco qui la gioia del credente) perché i demoni si sottomettono a voi, rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli’ (cfr Lc 10,20). Il gaudio del cuore, il godimento dell’anima sta nel sentirsi amati. Visto che la gioia non va cercata direttamente, la seconda tesi recita così: “La gioia è figlia o conseguenza di un fare buono, virtuoso, giusto”. Non c’è nulla di più appagante, godibile, rilassante che obbedire al proprio progetto vocazionale. In altre parole la coerenza produce gioia. Felicità vera, festa del cuore, voglia di vivere.

(09.08.2009 dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Arriva il quasi cinquantenne

L’inizio dell’articoletto potrà sorprendere. Il fatto è che, ad iniziare dai colleghi, mi chiamano ancora ‘prete giovane’, credo per rarefazione anagrafica dei presbiteri e per il loro progressivo invecchiamento. In realtà don Fabrizio tanto giovane non è, sta approcciandosi ai suoi 50. È stato ordinato nel ’87 per l’imposizione delle mani di Mons. Freschi spendendo i suoi 23 anni di ordinazione tra Seminario, come Animatore dei piccoli, San Giorgio di Pordenone, B.M.V.R. di Portogruaro e quindi Valmeduna. Così salutavo un paio di mesi fa le mie precedenti comunità, saluto di addio che ora può mutarsi in saluto di presentazione: ”In Febbraio il Vescovo mi ha avvicinato dandomi una pacchetta sulla spalla e dicendo i tenermi pronto. Era da un paio d’anni che sondava in modo informale la mia disponibilità: ‘Se sei stanco dimmelo che ti cambio domani mattina’. Anch’io rispondevo in modo scherzoso: ‘Se mi dimenticate mi fate un regalo’. Il fatto è che Meduno (da 11 anni) e Tramonti (da 8 anni) erano e sono casa mia in senso pastorale, lavorativo, amicale, culturale. Ora è tempo di fare le valigie come titolava un giornale locale. È tempo di obbedire, di ob-audire, di ascoltare in modo serio e responsabile, di trasferirmi a Prata mio nuovo gregge. Nel 91’ il Vescovo Sennen mi implorava di partire per il Kenia come missionario. Allora disobbedii spaventato, anzi terrorizzato alla prospettiva. Un’altra chiamata allora avrei sicuramente considerato con ‘orrore’: la montagna, che per me significava castigo, mancanza di stima dei superiori, giudizio di incapacità. Immediatamente dopo la disobbedienza missionaria caddi in una depressione allucinante, di cui non ho fatto mai mistero. Molte cose mutarono nel mio intimo tanto da salire più tardi in montagna con una gioia e un piacere che non mi hanno mai abbandonato. È proprio quell’inferno depressivo che ho sofferto, che poi si è trasformato in storia di salvezza, a consentirmi oggi di essere sufficientemente libero e sereno di… andare, di togliermi di mezzo, di morire, di ripartire”. Credo sia utile chiarire subito che il don in arrivo non possiede nulla di straordinario, è solo un poveretto che si sente amato e chiamato ad essere fratello, padre  e madre di altri. Sguarnito come sono, chiedo per grazia di essere reso destinatario del dono dell’intelligenza spirituale  e pastorale. Prendo la parola intelligenza nel suo significato etimologico, da intus-legere, vale a dire leggere dentro, non essere superficiali, ma accorti e sensibili per comprendere la bellezza e la verità del mistero della vita. Tale intelligenza guarda innanzitutto ciò che sta dietro le spalle, spinge lo sguardo verso il passato, cerca di fare memoria della storia che l’ha preceduta cogliendo tutti i frammenti di bene che contiene. So che Prata vanta una sequenza di sacerdoti geniali, colti e devoti; possiede antiche tradizioni e una ricchezza non comune di realtà e di iniziative ecclesiali. L’intelligenza spirituale di cui parliamo richiede di essere esercitata anche sul presente e sul futuro provando ad intuire e ad afferrare le provocazioni e le indicazioni di Dio, usualmente discrete e normali. È sotto gli occhi di tutti il bisogno enorme di creare comunione ad intra e ad extra, di imparare a dialogare e a tessere relazioni fraterne. Pur essendo un patito di innovazioni, amante del cambiamento e delle nuove metodologie e tecnologie, non credo nel modo più assoluto che la salvezza della nostra Chiesa arrivi da qualche geniale trovata. Sono del parere che, per la tenuta, la credibilità e la freschezza della struttura Chiesa, sia essenziale porre come pietra fondativa la relazione di fede. È dalla qualità e dalla bontà della nostra relazione con Dio che discende la qualità e la bontà delle nostre relazioni. La fede, evidentemente adulta, convinta e appassionata, deve essere l’ispirazione di ogni relazione e progetto che allora avranno il profumo della gratuità e della condivisione. Detto questo, voglio sperare di avervi indirettamente rivelato le mie intenzioni e la mia volontà di muovermi in modo ‘intelligente’ iniziando dal conoscervi e dall’amarvi. Vi saluto ringraziando i tantissimi che si sono attivati per la mia accoglienza, partendo dal sorriso benevolo di Mons. Danilo.

A presto!

Vostro don Fabrizio   06.10.2010

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Maria, ‘la donna vestita di sole…’ bellezza biblica assoluta

Audio Omelia del 15.08.2012

Mercoledì 15 agosto 2012

LETTURE: Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab; Sal 44; 1 Cor 15,20-27a; Lc 1, 39-56

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo
Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza.
Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra.
Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito.
Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio.
Allora udii una voce potente nel cielo che diceva: «Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo».

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