Vocato

In occasione del 25° della mia ordinazione sacerdotale la redazione del bollettino di Villotta di Chions mi ha chiesto 20 righe sulla mia vocazione. Eccole anche qui. Il primo aggancio ricordo fu la famosa ‘Due giorni’ in Seminario. Avevo 10 anni, venivo dalle campagne della mezzadria di Caorle e così mi ‘infatuai’ dell’ambiente: preti giovani, entusiasmo, canti, gioco, teatro… È curioso come Dio, senza strapazzare la libertà delle sue creature, giochi sulle prime attivando sogni e gusti infantili ed impossibili. Il seminario mi piaceva, mi è sempre piaciuto, ed immaginavo di lanciarmi in una festa senza posa e diventare un piccolo eroe. Dopo i primi anni di vita seminariale classica e tradizionale, incontrai la fase della crisi. Ero adolescente e capivo poco della contestazione studentesca e della crisi vocazionale. Il seminario si svuotò rapidamente. Rimasi con pochi, quasi non capendo. Triste per gli abbandoni, un po’ scombussolato dai primi ‘incanti’ giovanili, ma sempre attratto dalla vita ecclesiale. Più tardi nella fase iniziale degli studi teologici avevo pudore di esternare le mie intenzioni, non utilizzavo mai uscite dirette del tipo: ‘Voglio farmi sacerdote!’. Credo che in me ci fosse un misto di fede potente, di smania di protagonismo e di… incoscienza. A trent’anni nel pieno delle mie performance caddi nel baratro della depressione. In quel tunnel tremendo compresi le mie immaturità. Mistero grande e affascinante questo Dio che chiama dentro al buio del dolore e del nulla. Quasi si fa spazio per agire con maggiore scioltezza valorizzando la nostra debolezza. Per dire in ‘due righe’ che Dio ama, e proprio perché ama Egli chiama pizzicando misteriosamente sulle corde dei nostri sentimenti: attrazioni, curiosità, dolori, tristezze, entusiasmi e passioni. È tutt’altro che scontato interpretarne il ‘tocco’ e assecondare i Suoi di desideri, ma ne vale la pena.

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Apprendere l’ascolto

Audio Omelia del 04.11.2012

Domenica 4 novembre 2012

Letture:  Dt 6,2-6; Sal 17; Eb 7,23-28; Mc 12,28b-34

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

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Dimenticati o chiamati?

La memoria del Natale mette in evidenza la nostra identità: non siamo una masnada di disperati o un branco di sbandati, ma creature amate da sempre da Dio e perciò chi-amate da Lui. Dio è talmente affezionato a noi da prendersi cura come una madre della sua creatura. È nato tra le nostre case. Mosso da tenerezza intende condividere la nostra storia e coinvolgerci nei suoi disegni. Detto diversamente: la vita è un dono ricevuto per pura grazia (Dio ci ama e ci chiama all’esistenza), e nello stesso tempo la vita è un dono da donare, da restituire (Dio proprio perché ci ama, si avvicina e ci chiama a fare come Lui, ad amare). Questa è la vocazione di fondo che compete ad ogni creatura che lo sappia o no.

La Chiesa: la casa dei chiamati. Se quello che dicevamo viene preso sul serio, la Chiesa diventa la compagnia di coloro che liberamente si mettono in ascolto, e gioiosamente rispondono alla chiamata, si decidono di collaborare con Dio. E in virtù del fatto che si sentono chiamati e attratti da Dio, riescono a loro volta a diventare chiamanti, attraenti, provocazione per altri. Eccola la Chiesa che piace a Dio: una Chiesa di chiamati e di chiamanti, una Chiesa vocazionale. Una delle cause della crisi vocazionale dei consacrati sta proprio qui: nella debolezza di una cultura vocazionale, di un modo di intendere la vita come dono ricevuto e da spartire. Se viene meno l’attitudine a dare, se non ci si sente chiamati a spendere la vita con gratuità, allora l’entrare in Seminario diventa roba per pochi isolati eroi dello spirito, magari troppo seri e anche un po’  tristi. Più che di Chiesa di chiamati diamo l’impressione di essere così la Chiesa dei clienti… occasionali ed esigenti. Diventiamo i consumatori di ‘articoli religiosi’: di Messe, di Sacramenti, di cose sacre. Scambiamo casa nostra per una bottega… per finire che a furia di consumare non resti più nulla.

La sofferenza: il luogo della chiamata. In questa visione delle cose, la fatica, la crisi, la prova, la sofferenza anche quella più assurda e dura è una sorta di grembo dove Dio si muove e cresce, diviene un luogo ideale dove Lui chiama e ama. È paradossale quello che sto dicendo, ed in realtà la prima reazione di fronte al dolore è la rabbia, la percezione che Dio è lontano. Ma è proprio nel buio, nella notte, nel vuoto che Lui può agire con maggior libertà. Lì a contatto con la nostra povertà vulnerabilità, messi in ginocchio nella nostra impotenza ci è dato di fare esperienza di che cosa significhi finalmente essere amati. Rimane solo Lui: Madre che non abbandona il figlio, Padre di cui ci si può fidare. Amati così per quello che siamo intuiamo che non possiamo buttarci via, ma che siamo  chiamati a tirar fuori il meglio di noi. E guarda un po’ iniziamo a rispondere finalmente alla nostra vocazione, diventiamo fecondi e portatori di vita, noi che ci consideravamo solo sfortunati, castigati e disperati.

I sentimenti: l’eco della chiamata. Dio chiama le sue creature a stare di fronte a Lui, e così mette dentro, in profondità un bisogno di vita, di libertà, di pienezza… un bisogno di Lui. Solo Dio può saziare tale desiderio potente ed intenso. Dalle radici della nostra anima sale una voglia assoluta di pace. È una voglia, una fame che non si sazierà sin che non riposeremo in Dio. Ecco perché i Padri della Chiesa e gli autori di vita spirituale affermano che ogni desiderio se analizzato nella sua origine è un desiderio di Dio, anche i desideri deviati e oggettivamente cattivi. Intendo dire che se impariamo ad ascoltare la nostra anima, se apprendiamo a valutare ciò che accade con uno sguardo intelligente (intelligente deriva da intus legere, leggere dentro) comprenderemo che in partenza ogni sommovimento del cuore, foss’anche rabbia, odio, cupa disperazione, è a ben considerare, ricerca di pienezza, voglia di libertà, nostalgia di Dio. Da qui possiamo affermare che nessuno di noi è inadatto alla vocazione della vita. Anche i ‘lupi’ e non solo gli ‘agnellini’ e i mansueti, se presi e se si prendono per il verso giusto, possono fare la loro parte positiva. Se questo è vero possiamo ritenere che il mondo per quanto pazzo e conflittuale sia non è mai perduto e disprezzabile.

Ora, caro amico, vedi come l’Eterno celebra il suo Natale assediandoti ovunque ma senza forzature, cerca di sedurti ma lasciandoti libero, si mette nel bel mezzo dell’ultimo posto dove ti aspetteresti di trovarlo: Lui ama e chiama. Tu piuttosto dove sei? Buon Natale!

(Natale 2005 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Impressioni Keniote

Rielaborando nel cuore e nella mente l’intensa esperienza del visita alle nostre missioni diocesane in Kenya che ho compiuto a Gennaio di quest’anno, mi fa piacere condividere alcune impressioni. Premetto che nel 1991 fui contattato ripetutamente da Mons. Sennen Corrà e da Don Romano già allora missionario in Kenya per unirmi al progetto missionario della Diocesi in Africa. Si trattava di dare il cambio agli altri preti ‘fidei donum’. Allora si parlava di un turnover di una decina di anni. La richiesta la respinsi al mittente, e a conti fatti forse lo Spirito me l’ha suggerita essendo in quel periodo così immaturo e fragile.

Ad ogni modo, Don Elvino, don Romano, le Suore delle Parrocchie di Mugunda e di Sirima, i missionari e le missionarie incontrati, religiosi e laici vivono il loro servizio, che domanda oggettivamente coraggio e dedizione totale, con la più assoluta naturalezza e normalità. Quando arrivano i complimenti li accettano volentieri, ma mal sopportano essere definiti eroi e caschi blu del Vangelo. Questo tratto del loro profilo li rende ancor più convincenti. A ben pensarci l’ipotesi di essere chiamati a dare la vita nella sua interezza non è così remota da quelle parti. Eppure il tutto è affrontato con spontaneità. È la normalità del Vangelo, è la normalità della Verità della vita: dono ricevuto che tende a divenire dono restituito ad iniziare dagli ultimi.

La seconda impressione la ricavo dalla differenza abissale tra il nostro mondo occidentale e il mondo del popolo africano. Differenza culturale, emotiva, storica, ambientale… ecclesiale, politica. La nostra idea di verità, di persona, di tempo non è nemmeno parente lontanissima della loro. Nel processo lento, paziente, intelligente e creativo di inculturazione e di evangelizzazione ho notato in loro una matura e forte accettazione della differenza. Accettazione che non significa approvazione, ma libertà di permettere che le cose siano così, disponibilità a misurarsi con ciò che non torna nei propri schemi, valorizzazione del buono che c’è in tutti e in tutto.

Importante questa lezione che arriva dal Kenya per noi così insofferenti per tutto ciò che suona diverso, smaniosi di rendere l’altra nostra immagine e somiglianza, incapaci di fraternizzare con chi non rientra nei nostri gusti. Mi sia consentito una battuta sul mal d’Africa. A lungo ho cercato di indagare sul virus del mal d’Africa. Ho compreso che è una sorta di innamoramento cronico del sorriso, dell’ospitalità, dell’espressività, degli odori, dei profumi e dei colori africani che riempiono gli occhi, la mente, il cuore, la memoria. È possibile ed è giusto che anche noi ce ne lasciamo salutarmente contagiare.

A proposito di Africa e di poveri, spiace in questo scorcio di stagione sociale e politica assistere a tanta fermezza sul fronte della sicurezza non controbilanciata da una effettiva proposta di sviluppo e di giustizia. Per rendersi conto di questa aperta contraddizione, non copribile da proclami televisivi portati con una faccia tosta intollerabile, è bastevole spendere una decina di giorni con i missionari fuori dagli scontati itinerari turistici. Si evincerebbe che la mano dura e ferma è la medesima che affama insaziabile.

Da questo punto di vista la nostra accoglienza non dovrebbe essere minima, ma la risposta minima che ci si aspetterebbe.

(09.08.2009 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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Pecore o pecoroni?

Audio Omelia del 28.10.2012

Domenica 28 ottobre 2012

Letture: Ger 31,7-9; Sal 125; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! ».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

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Ascolto

Mentre scrivo sono in una condizione di ansia per l’intervento chirurgico che debbo affrontare. Le idee si appannano. Decido di proseguire nello scrivere anche se l’emotività mi imbroglia un po’. Ma sono curioso di leggermi a distanza… e comunque qualcosa da comunicare ce l’ho, e fortemente in sintonia con quello che sto vivendo. Sento dentro un grande bisogno di parlare e quindi di essere ascoltato. È proprio l’ascolto il terreno nel quale vorrei entrare per compiere una breve esplorazione. In queste settimane ritengo di essermi affidato a medici veramente in gamba, ma con scarsa attitudine all’ascolto. Tutto negli ambulatori si svolge così in fretta. Uno talvolta ha l’impressione di essere un pezzo di ‘ernia lombare’, più che una persona… con bisogni e paure. Anch’io, non così raramente, vengo rimproverato d’andare un po’ in fretta, di aver tra le mani troppe cose. Mi sorprendo a provare piacere quando mi dicono queste cose. Eh si! Significa che sono attivo. A ben pensarci però questa cosa più che una virtù, è un peccato clericale ed infantile. Infatti fa a pugni con l’ascolto, che domanda pazienza e gratuità. È raro l’ascolto vero. Anche quando c’è, rischia di  scadere in ascolto di cortesia, in gentilezza voluta e costruita, in ascolto tecnico… se il cliente è interessante e utile. Facendo mia una riflessione di altri e adattandola, direi che la Chiesa del pre-Concilio ha dato un primato, non solo teologico, ma anche operativo alla PAROLA, e quindi alla predicazione… alla bocca. Era una Chiesa innanzitutto ‘Magistra’, educatrice, maestra. Quindi una Chiesa che pretendeva l’ascolto, prima di offrirlo. Ricordate lo schema del catechismo di Pio X? La fede andava ‘ascoltata’, imparata, ripetuta a memoria. Con il Concilio Vaticano II (attenti bene che la nostra è una riflessione grezza e artigianale, fatta di intuizioni, più che di accorte e studiate valutazioni), la Chiesa ha sentito il bisogno di mutare atteggiamento nei confronti del mondo, della storia. Il documento Gaudium et Spes (La Chiesa nel mondo contemporaneo) la dice lunga. Si è dato così rilievo ed importanza strategica all’ascoltare un mondo in perenne cambiamento, pena il parlare a vanvera, ad interlocutori che non potevano più intendere i linguaggi di un tempo. Senza smettere di usare la bocca, si è passati ad esercitare l’orecchio, l’ascolto appunto. Si sono moltiplicate così le ricognizioni, le settimane di aggiornamento, i dibattiti, le indagini, le verifiche, il dialogo con tutte le componenti della società (con le Chiese sorelle e le grandi religioni: ecco l’impresa ecumenica). A 30 anni dal  Vat. II alcuni stanno facendo notare che un ascolto di questo tipo è insufficiente. Perché alla fine si riduce ad un ascolto molto razionale, freddo, dove a contare sono le statistiche, i numeri, le tendenze. Dove c’è poco spazio per il mistero. Il volto della Chiesa appare deformato. Esiste una faccia con una bocca ed un enorme orecchio. Probabilmente a questo volto va aggiunto un secondo orecchio. L’orecchio dell’ascolto tipico del credente. Un ascolto accogliente, che dà spazio all’altro con tutta la sua diversità. Un ascolto che valorizza e apprezza, perché sa di trovarsi di fronte ad una creatura pensata ad immagine e somiglianza di Dio, una creatura che merita di essere ascoltata. Un ascolto che afferra il positivo dell’altro, i fremiti di bene dell’altro. Il bisogno di vita, di pienezza, il bisogno di Dio è piantato dentro e talvolta si esprime anche in modo  paradossale, violento, distruttivo, drammatico, terribile. Solo chi ha la saggezza di ascoltare può individuarlo.

In tutte le faccende umane, anche nelle più sporche e cattive, si agita un pezzo di verità, un frammento di vita che andrebbe apprezzato. Tale ascolto, senza forse volerlo, sente i movimenti di un Dio che lavora nell’animo dei sui figli e che li provoca a cambiare, a crescere, a diventare liberi e costruttori di libertà. Un ascolto siffatto abilita a collaborare con il progetto vocazionale dell’altro, ad incoraggiarlo.

A questo punto dobbiamo ritornare a parlare, e il parlare può diventare ora più caldo, più umano. L’annuncio diventa più credibile. Infatti, sarà un parlare contaminato dall’ascolto, dove l’altro si sentirà capito e si aprirà con fiducia a sua volta all’ascolto. Il parlare sarà accompagnato dall’energia dei sentimenti e sarà maggiormente  efficace. Non si partirà più solo dal dato teologico (la Chiesa dice che…), dalla causa di Dio vista in astratto, ma da una creatura alla quale Dio propone la sua causa. Il vissuto dell’altro richiamerà anche il proprio vissuto personale di uomo, di credente. Parlerò così non da tecnico, da accademico della teologia, ma da fratello credente che ha del suo da condividere.

Senza tralasciare il lavoro pastorale feriale e ordinario, è cosa buona che ogni credente trovi responsabilmente il tempo per ascoltare e il coraggio per parlare. Ritengo che su questo campo, il campo  delle relazioni, si giocherà buona parte della tenuta delle nostre Chiese nel prossimo futuro. Le opportunità non mancano: la nascita di un bimbo, un successo scolastico o professionale, la Festa di Prima Comunione dei figli, le nozze celebrate davanti all’altare, i colori del tramonto, l’incanto dell’autunno e delle altre stagioni, una lettura appassionante, la gioia del vivere, una bella vacanza, un bacio… oppure… la visita di una persona noiosa e petulante, una piccola calunnia ricevuta, una ingiustizia subita, un fallimento, la malattia del nonno… un fatto di cronaca nera, un dramma consumato tra le pareti di casa, un’immagine di miseria e di abbandono, una scena di conflitto armato vista alla TV, un atto di terrorismo, la visione della stupidità e della cattiveria umana… Tutto, proprio tutto può diventare, anzi domanda di diventare cosa da ascoltare, con l’orecchio della razionalità e con l’orecchio del credente. Tutto, tuttissimo, può trasformarsi in luogo dove condividere la nostra fede, dove promuovere la vita, dove far spazio al Dio che nasce.  Buon Natale!

(Natale 2003 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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La vita come servizio, la vita come prova

Audio Omelia del 21.10.2012

Domenica 21 ottobre 2012

Letture: Is 53,2a.3a.10-11; Sal 32; Eb 4.14-16; Mc 10,35-45

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora [Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».]

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L’eccedenza del Natale

Gli articoli di apertura dei bollettini parrocchiali a ridosso delle feste religiose tradizionali non di rado li trovo scontati e noiosi, retorici e ripetitivi. In questo caso il genere letterario è quello parrocchialese, infarcito di moralismo e un tantino forzatamente speranzoso. Ho sempre detestato scrivere cose di circostanza. La tentazione mia piuttosto è quella di scivolare sul fronte opposto, di essere a tutti i costi originale, almeno nei titoli, ed in buona sostanza vanitoso e non proprio comprensibile. Tuttavia frugando nel cuore e lasciandolo parlare all’approssimarsi del Natale percepisco che Dio ci sorprende con la sua eccedenza, ci spiazza con la sua tenerezza e genialità misteriosa. È il nostro, quello di Gesù Cristo, un Dio eccedente. Questa sua esuberanza la colgo almeno in tre versioni.

Eccedenza amorosa. Così il celebre passo del Vangelo di Giovanni: ‘Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito’ (Gv 3,16). C’è da incantarsi! Non gli è sufficiente piegarsi su di noi, mettersi sulle nostre tracce come con Adamo nel giardino paradisiaco, intenerirsi e quindi agire abbracciandoci come madre. Lui si coinvolge, desidera fare esperienza reale di noi, farsi come noi, donare il meglio di sé, donare il Figlio. Eccede, va oltre, supera le proporzioni del bene. Gli bastava investire molto meno per togliere la spada fiammeggiante che bloccava l’accesso all’eternità. Mediocri allora certi nostri stili di vita eccessivamente preoccupati di sé, della propria salute, dove si tende a salvarsi e a conservarsi ad ogni costo. Scelte ed abitudini apparentemente sagge, ma in realtà prive di slancio, povere di dono, assolutamente non eccedenti e alla fine inconcludenti. L’altro lato della medaglia è l’iperattivismo, la frenesia, l’euforia lavorativa… lo stress. Eccedenza questa malata e altrettanto  inconcludente, anzi distruttiva. La contemplazione del presepio ha tantissimo da insegnare.

Ascoltando ancora il cuore trovo una seconda eccedenza, una eccedenza di normalità. Gesù non nasce nello squallore come troppa tradizione ha insistito, ma nel massimo della normalità, nella parte della casa riservata agli attrezzi e agli animali per pudore e decoro essendo gli ambienti intasati di famigliari. Maria non si eccita come una velina televisiva, ma agisce con naturalezza e disarmante normalità, lo avvolge in fasce. È ciò che   poteva e doveva fare come madre. Poi silenzio e obbedienza casalinga ed educativa per trent’anni: spiazzante normalità. Immediato il contrasto salutare avvicinando tale normalità con il nostro chiasso contemporaneo, fatto di apparenza, di immagine, di fama, di sovraesposizione effimera. Schiacciante normalità quella di Dio che celebra quanti si immergono nel quotidiano e nel feriale senza strepito e con responsabilità. Stimolante ed incoraggiante scoprire quanti s’avvedono della meraviglia che abita la normalità, fratelli e sorelle che apprezzano ogni frammento di bene, che intuiscono ovunque i segni della provvidenza e della generosità dell’Altissimo, che gioiscono con gratitudine per ogni gesto di pazienza, di perdono, per ogni relazione, per ogni sorriso e volto incontrato, dove vi leggono l’eccedente bontà di Dio che supera ogni tentativo di restituzione.

Da ultimo riconosco un eccesso di speranza. Per sostenerci ed aprirci all’ottimismo Dio ha deciso di piantare la sua tenda nel nostro accampamento, di fissare la sua casa tra le nostre. Lui è felice di spalancare le porte, di uscire tra i quartieri e lungo le strade, di invitarci alla festa preparata. Meschine allora, riduttive certe risposte rituali che trasformano il Natale nella festa dei doni, ovviamente da supermercato (sic!), o che al limite si accontentano entrando nella Sua casa di ottenere un piacevole struggimento del cuore, il quale poi ritorna alla consueta durezza. Risposte religiose di natura consumistica, che confondono il sentirsi in pace con il sentirsi bene almeno per un giorno. Esiste una eccedenza tutta da scoprire, da gustare, da godere. In ogni caso il fatto che si riempiamo le Chiese almeno per una notte sta ad indicare che il cuore batte per ciò che è grande ed eccedente. Si tratta della nostalgia di Dio, del bisogno della festa e della libertà. Speranza di lungo ed eterno respiro! Siamo più vicini alla sua eccedenza, alla verità e bellezza del Natale di quanto non sembri. Auguri!

(Natale 2009 – dal Bollettino delle Parrocchie della Val Meduna)

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