La tenebra della tempesta contiene una vocazione

Appunti per il dopo-epidemia nell’ambito comunitario e associativo.

L’arrivo del mostriciattolo killer, battezzato Covid 19, invisibile e vigliacco, da problematica geolocalizzata – Cina e poco più – si è rivelato dramma pandemico. Rapidissimo nei suoi movimentie contagi, ci ha rifilato un gancio micidiale allo stomaco destabilizzandoci, seminando angoscia e paura, con la sensazione conseguente di perdita di controllo pressoché totale… Tutti sono ben informati sugli esiti di lutto e dolore, privazione di libertà, e – non da ultimo – povertà economica. L’esperienza del lockdown, con lo strascico di implicazioni, disagi, restrizioni e – per alcuni fortunati – inattesi spazi di libertà, ha funzionato come un incubatore carico di sentimenti, riflessioni sapienziali, interrogativi. Nello scenario evocato, di tipo “tempestoso” – giusto per stare alla metafora biblica di Papa Francesco – colloco alcune considerazioni di tipo comunitario-associativo, senza la pretesa di esaustività e un ordine di priorità preciso. Non troverete nulla di straordinariamente originale, se non in parte, e purtuttavia contengono – per il fatto di essere elaborate e segnalate dal basso e nel contempo da illustri intellettuali – una quota di verità che le rende, almeno ai miei occhi, intriganti, vere e aperte ad ulteriori sviluppi.

Il primo elemento, condiviso in termini trasversali, è la percezione di una radicale vulnerabilità: non siamo divinità inattaccabili, ma dei poveracci, deboli e ahimè mortali. Si tratta di una evidenza che nella vita esperita, vissuta nella sua ferialità, rimuoviamo. Già nel 2008 Céline Lafontaine, una sociologa canadese, pubblicava una ricerca dal titolo emblematico: “La société post-mortelle”, che ha fatto una certa scuola intorno a sé. Secondo la ricercatrice, l’uomo occidentale, super tecnologizzato, pensava (e pensa) di aver superato le barriere del limite, di poter porre ogni frammento della natura sotto il dominio della scienza… in una operazione culturale e sociale che mirava a far scomparire ogni traccia e odore di morte. La convinzione è apparsa – se ve ne era bisogno – tremendamente illusoria. Il refrain “Andrà tutto bene!” contiene una necessità umanissima, una sacrosanta verità da riconoscere e rispettare, in ogni caso simultaneamente segnala la fatica di saper integrare sapientemente la parte fragile della vita. Davanti al male, alle catastrofi, alla sofferenza si reagisce e si lotta – giustamente e spesso esclusivamente – con gli strumenti della scienza e della tecnica, cedendo il passo alla fine, in caso di loro fallimento, allo scoramento desolato. Nessuno ama il dolore, la sofferenza, il limite… la morte: cose tutte da non augurare nemmeno al peggior nemico. E ancor prima di noi, Dio stesso non le desidera affatto. Egli ha creato ogni cosa per l’esistenza e senza veleni mortiferi (cfr. Sap 1,13-15). Ora, lungi da noi l’intenzione di approfittare delle disgrazie o di recitare la parte dell’uccellaccio del malaugurio appollaiato al capezzale dell’umanità malata. Tuttavia ci si potrebbe chiedere come trasformare un sentimento di impotenza in un luogo di ricerca spirituale sul senso, sulla verità, sul Mistero. La tenebra della “tempesta”, la prova, gli infortuni della vita contengono una vocazione che attende di essere decodificata, una porzione di grazia che domanda di emergere. Sono un terreno per gettare semi di Vangelo, o – se si preferisce – un terreno che contiene già grani di vita divina generativi. La debolezza – dato biblico incontro-vertibile – può così essere svelenita, costituire un passaggio evolutivo e fecondo, essere interpretata come una soglia di fede, venir integrata in una logica formativa e missionaria (cfr. 2Cor 12,5-10).

Il distanziamento forzato ha fatto erompere, talvolta nel grido urlato, più spesso tra lacrime e gemiti struggenti, un bisogno di relazione potente, verticale – o almeno interiore con la propria anima – e orizzontale, verso l’Altro e verso gli altri. Non solo, si è quasi celebrata una sofferta epifania, un disvelamento, ovvero l’uomo si è denudato nella sua verità di essere dialogico, di straordinaria grandezza e bellezza, concepito per la relazione – anzi – relazione vera e propria. Gli uomini e le donne sono per struttura creature relazionali, desiderosi di aperture e incontri… non possono far a meno di essere amati e di amare. Si è toccato perciò con mano un principio e fondamento antropologico, biblico, sperimentabile direttamente. A tal proposito, l’attivazione delle reti associative, da Sud a Nord, corale e generosa, creativa e coraggiosa, non si è fatta attendere. Va riconosciuto all’AC di aver premurosamente ed intelligentemente interpretato il compito di tutore sociale e di animatore ecclesiale, liberando risorse di solidarietà e di vicinanza nei luoghi della cura, nei servizi, nell’economia, negli ambiti della politica, nella pastorale… nell’ordinarietà. Le narrazioni commoventi di verace fraternità, di attenzione agli ultimi, di condivisione di beni relazionali segnalano una vitalità promettente – certamente non improvvisata e frutto di lunga e perseverante formazione – di cui essere riconoscenti, senza per questa ragione pretendere applausi o targhe al merito. La lezione da apprendere è che la carità relazionale, pastorale, ecclesiale non va intesa in termini riduttivi, quasi fosse un preambolo all’annuncio del Vangelo o una faccenda che riguarda le borse spesa della Caritas diocesana e parrocchiale. La fraternità è esercizio del Vangelo, modalità centrale di annuncio del Dio della misericordia… Chiesa tout court. Se così non fosse, sfigureremmo il volto della Chiesa, di nostra madre, la renderemmo una bottega di servizi religiosi a buon mercato, la declasseremmo ad ONG utile per la propaganda. I prossimi piani pastorali non potranno ignorare l’obiettivo dato dal canto salmico: «Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!» (Sal 133,1).

Un ulteriore aspetto che mi preme evidenziare, e che ripiglia un passaggio appena accennato, è l’utilizzo del web per comunicare, confrontarsi e dibattere, formarsi, trasmettere celebrazioni in streaming, pregare. Concordo con i giudizi equilibrati e autorevoli, con delle punte critiche legittime, formulati a proposito dell’attività associativa ed ecclesiale smart. Ad ogni modo, vorrei invitare ad approcciare i new media, la information technology, i social… con il paradigma umanistico. Mi spiego. Normalmente, e correttamente, si ha un approccio con i media tecnocentrato, li consideriamo devices, strumentazioni, canali operativi con una serie di enormi potenzialità e di inquietanti lati problematici. Potremmo, senza abbandona re il paradigma tecnologico, inserirne uno di tipo umanistico, concependo i media come estensioni, prolungamenti, proiezioni dell’uomo, insomma i media siamo noi. Di sicuro avremo un approccio meno difensivo, maggiormente intraprendente e responsabilizzante. È vero, la relazione sarà mediata, non avverrà in presenza, e nondimeno sarà relazione caricabile di bellezza, di fraternità, di verità, di Vangelo. Il futuro, che lo si voglia o meno, sarà sempre più “misto” – onlife – per utilizzare la celebre espressione di Luciano Floridi, e perciò perché attardarsi in battaglie perse? Il contatto diretto, la fisicità, la corporeità, la relazione face to face si difenderà da sé. Ciò che piuttosto non va abbandonato, ma abitato, frequentato con intelligenza e caricato di bellezza è lo spazio della rete. Perché non immaginare il web popolato di cittadini digitali che si scambiano una Parola di verità? Impreteribile, ovvero prioritario e fondante, per non svuotare di luce il discernimento e procedere alla cieca – da volontaristi presuntuosi –, sarà stringere nuovamente una alleanza con lo Spirito del Risorto. Un deficit “spirituale”, una decurtazione dello Spirito, ci condannerebbe ad un neopelagianesimo inconcludente e autocentrato. Vie, metodi, letteratura, strumenti, buone prassi non mancano per riaffiatarsi con lo Spirito – rimanendo in guardia da attese magiche e automatiche – per respirare con il “Respiro” di Dio, a prova di Covid.

Don Fabrizio de Toni – Assistente nazionale Settore Adulti di AC e del MLAC

Approfondimento pubblicato nel sussidio “Servire e dare la propria vita – Linee programmatiche 2020-2021” dell’Azione Cattolica della diocesi di Padova.

Condividi Post ...