Ci prendiamo cura del nostro cuore?

Il titolo evoca un celebre romanzo che portò Susanna Tamaro alla celebrità: Va’ dove ti porta il cuore (1994). È proprio così intelligente l’invito? Apriamo il cancello allegramente a istinti e desideri? Li sguinzagliamo inviandoli in libera uscita? Il cuore certamente ha i suoi diritti sacrosanti e perciò – ci chiediamo – le sue ragioni innate vanno accettate tali e quali si presentano? Siamo proprio sicuri che la coscienza sia inossidabile e infallibile? Ritengo che la coscienza, e dentro a essa la coscienza credente, abbisogna di cura, accompagnamento, educazione, esperienza… perdono e ripartenza.

La sapienza della Chiesa, la letteratura teologica e le biografie personali ci insegnano che la coscienza è un organismo vivente che va maneggiato con cautela, onorato e formato. Diversamente – lasciato a sé stesso – può cadere vittima della sclerocardia, segnalata ripetutamente dalla corrente profetica e dallo stesso Gesù come malattia del cuore indurito e presuntuoso, incapace di aprirsi alla fede (cfr. Mc 8,14-21; Lc 24,25). L’arroganza e l’autoreferenzialità non bloccano qualsiasi tentativo di introdurre la coscienza in un percorso di crescita? Mi intriga un’immagine – la rubo da un manuale di morale fondamentale curato da Cataldo Zuccaro (Teologia Morale Fondamentale – Queriniana) elaborandola liberamente – la quale descrive la coscienza come un “territorio”. Trattasi di un pascolo nel quale bruca e sosta il gregge (la dignità personale e i beni preziosi dell’anima) sorvegliato da un cane pastore. Quando si avvicina qualcosa o qualcuno al perimetro del territorio il cane si rizza in piedi, annusa, si muove… discerne e decide il da farsi. Se il nostro amico a quattro zampe non è ben addestrato che accade? Quindi impegnarsi in una azione educativa non ha nulla a che vedere con la coartazione della coscienza, quasi fosse un attentato alla libertà e spontaneità. Anzi, è un investimento per la costruzione di un uomo libero e responsabile, fatto per scegliere ciò che è buono, vero e bello, destinato alla felicità. Una seconda immagine la prendo in prestito – anche qui concedendomi ampi spazi di reinterpretazione dalla trilogia di P. Amedeo Cencini sui sensi (Abbiamo perso i sensi, Dall’aurora io ti cerco, I passi del discernere – SanPaolo), quali recettori che ci consentono di conoscere, di discernere e di agire sulla realtà. La coscienza è raffrontabile o identificabile con la sensibilità credente. Essa, prima ancora del che cosa è buono e che cosa non lo è evangelicamente parlando, abilita a chiedersi che cosa Dio desidera di buono da me, esce insomma dalla autoreferenzialità, si «rizza in piedi per fiutare l’aria o scrutare l’orizzonte» pronta per l’incontro con l’Altro.

DIFFERENTI SONO LE SENSIBILITÀ

Ora, nella sensibilità credente, sono implicate differenti sensibilità che vi afferiscono con le loro spinte e richieste. Vi troviamo la sensibilità relazionale, affettiva, vocazionale, estetica, etica… La sensibilità credente può governarle quale elemento mediatore e di sintesi. L’uomo, dunque, non è spezzettabile e, nelle sue valutazioni e decisioni, agisce come un tutt’uno, investendo sé stesso nella sua globalità, mobilitando ragione e volontà, sensi e inconscio. La sensibilità credente – in altre parole – sta al cuore, o meglio è il cuore, perché crocevia della complessità e del mistero dell’uomo, unificatrice delle diverse sensibilità e dimensioni in un equilibrio dinamico, luogo dove alla fine si discerne e si operano delle scelte. Si tenga presente, in aggiunta, che la sensibilità evoca attrazione, desiderio, reattività, energia, gusto ovvero una dotazione formidabile affidata all’intelligenza e alla libertà umana, alla coscienza, in ordine al bene e alla gioia, all’amore… a Dio. «Ci hai fatti per Te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te (Sant’Agostino, Le Confessioni, I,1,1). Inquietudini e sensibilità – ecco il punto decisivo – andranno evangelizzate, bonificate, orientate e formate in base a una legge antropologica e spirituale che recita: «Ciò che non viene formato si de-forma» appunto, perché è materiale sensibile. L’attrezzatura “sensoriale” possiede una sua finalizzazione, ci è consegnata per scegliere il bene, per fare la volontà santa e buona di Dio, per costruire la nostra identità, per immettere senso nella storia umana, tuttavia non vi sono meccanismi automatici, predeterminati. Detto diversamente, la verità e la bellezza esercitano il loro fascino, ma non sono le sole a porsi tra i “cibi” appetibili. Si annoverano tra essi, infatti, anche attrazioni false, pessime, cattive, corrosive, brutte che seducono e che, una volta accontentate, lasciano una soddisfazione amara e triste, disperata e insaziabile.

COME STA DI SALUTE LA COSCIENZA?

Perciò oltre all’esame di coscienza, o se si vuole all’inizio dell’esame di coscienza, come suo primo passo necessario, ci si dovrebbe chiedere come sta di salute la coscienza (dall’esame di coscienza all’esame della coscienza). Non si consideri tale lavoro spirituale come una auto-tortura, uno stillicidio degno di pratiche oscurantiste e nemiche dell’uomo, al contrario l’intento è di favorire una formazione permanente della coscienza, una ecografia possibilmente da eseguire con l’accompagnamento di un fratello maggiore nella fede, un itinerario di guarigione e di liberazione senza posa che termini con il nostro ultimo respiro, quando la formazione si completerà nella trasfigurazione permanente. E sarà festa!

In chiusura, richiamiamo un atteggiamento interiore da tenere ben allenato e una pratica virtuosa: la vigilanza. Come detto, le diverse sensibilità ribollono nel cuore, lo attraversano, emergono alla coscienza come moti dell’anima, quali emozioni da decodificare. Stare vigili e desti, come i servi della parabola (cfr. Mt 24,42-44), ci dovrebbe indurre a interrogare l’emozione/ sensazione in presa diretta: «Tu da dove vieni? Di chi sei figlia? Cosa stai dicendo di me? Quale vangelo mi porti?». Inoltre, le esperienze della vita, a iniziare da quelle critiche e traumatizzanti, arrivano con il loro carico di sfide e sollecitazioni che impattano sul cuore. Anestetizzare la sensibilità credente, concedersi a una nanna spirituale, distrarsi potrebbe avere un prezzo elevato da pagare. Che cosa preferire, il rischio dovuto alla superficialità e pigrizia del cuore, o quello che proviene dalla responsabilità e dalla idealità? La Lectio divina. La riproponiamo in questa sede perché essa rivela l’essenza dell’identità, assieme a infinite varianti della medesima verità, fornisce dei materiali indispensabili per l’esercizio della vigilanza, e mette in mostra ciò che è sommamente attraente, scuotendo da torpori e attrazioni fasulle. Parafrasando sant’Ireneo si potrebbe affermare: «La gloria di Dio è l’uomo vivente, grazie alla formazione (del cuore) permanente!».

Don Fabrizio De Toni

(assistente settore Adulti Ac e assistente Mlac)

Articolo pubblicato nella Rivista “Segno nel mondo” n. 2/2020

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